“Non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare.”
(Italo Calvino)
Erano giorni che sentivo parlare di Aylan e della sua foto. "E' una vergogna diffondere un'immagine simile, non c'è rispetto neanche per i morti!" dicevano alcuni, con la voce rotta. "Bisogna che l'Europa veda, nuda e cruda, la sua colpa!" dicevano altri, rabbiosi. Fatto sta, che io la foto di Aylan ancora non l'avevo vista. Allora la sono andata a cercare e, con la tecnologia di cui disponiamo al giorno d'oggi, non è stato poi così arduo trovarla. Mi è balzata davanti agli occhi come un'immagine qualsiasi, tra quei fotogrammi di violenza e terrore che siamo -ahimé- ormai quasi abituati a vederci sbattere in faccia senza fare una piega. Sono rimasta bloccata ma non di spavento, né di pietà. Sono rimasta bloccata, come pervasa da una curiosità sospettosa, gli occhi strizzati, a fissare quella figurina addormentata sull'acqua di un mare ingrigito, il corpicino appoggiato sulla sabbia umida e spenta. Lo fissavo, Aylan, come alla ricerca di un dettaglio di vita, di un guizzo che lo facesse apparire per quello che era: un bambino.
Mi ci è voluto un po' per comprendere che Aylan era già annegato. Un bambino solo, così piccolo, sommerso dalle onde del mare impietoso. Ho provato ad immaginare la vita di Aylan prima di quella foto: gli abbracci che gli hanno dato, le carezze che ha ricevuto. Chissà se aveva sorriso mai, Aylan, il giorno in cui il barcone su cui viaggiava è affondato, chissà se qualcuno che gli voleva bene gli aveva sussurrato all'orecchio di non avere paura, nenche quando la barca aveva iniziato a scricchiolare, le assi del fondo a cedere, il peso di quell'umanità disperata ad affondare piano negli abissi. Braccia che sbattono, occhi che vedono, fino alla fine, voci che urlano, senza più suono, bocche che cercano aria che manca, aria e acqua, poi acqua, poi aria, poi acqua soltanto e la vita di Aylan che vola rapida verso il cielo.
Cosa voglio dire con il mio scritto? Non lo so. So solo che quando mi sono imbattuta in questo disegno ho pensato che Aylan se lo merita un abbraccio da Gesù. Da Gesù, da Allah, da come lo vogliate chiamare, perché Dio per me è sempre stato uno solo e lo stesso e ditemi quello che volete, tanto idea non la cambio. So solo che di bambini come Aylan ce ne sono tanti, sballottati sul mare dai trafficanti di uomini, e sono pieni di sogni, questi bambini, come quelli che a quest'ora già dormono nelle nostre case. Davanti a quest'orrore già compiuto c'è tuttavia qualcosa possiamo fare. Possiamo pensare. E dire. E dire senza esitazione alcuna. Dire che davanti ad una foto così, non si può non tornare ad essere umani, non si può non sentirci le mamme di Aylan, i papà di Aylan, i fratelli e le sorelle di Aylan, i nonni di Aylan, gli amici di Aylan, i maestri ai Aylan, non si può non pensare che se solo fossimo stati anche noi su quella barca, se solo avessimo potuto afferrare quel bambino e sollevarlo dal mare, lo avremmo fatto, perché, in fondo, siamo ancora creature, senza nazione, senza Paese, senza passaporto, in fondo, ma proprio in fondo, quando tutti gli strati di convinzione, cultura, educazione, nazionalismo, politica, società, religione e abitudine sono già stati grattati via, quando ogni residuo di gruppo, di idee, di esperienza, di casualità è annullato, quando tutte le croste che abbiamo sul cuore si sciolgono, in fondo, siamo ancora creature.
Non voglio più sentire le parole di odio che sento talvolta qui intorno, non voglio vedere più gli sguardi sprezzanti rivolti alla gente di altri colori, non voglio tollerare più la cecità di chi non comprende che è difficile per tutti essere stranieri ed è ben altro che occorre distruggere. Dobbiamo aver paura dell'odio, dell'insensibilità, del disprezzo, dobbiamo temere chi incita alla separazione, chi esalta la differenza come un ostacolo.
Non possiamo avere paura di Aylan. Non dobbiamo temere chi ha ancora la speranza di credere che ci sia un mondo migliore al di là del mare.
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