Saturday, December 29, 2018

Tereza ha paura di volare




Rito de los voladores, Bosque de Chapultec, Città del Messico.
Agosto 2018, Cancún, Messico.

Tereza ha paura di volare. Me lo dice sorridendo, con le sue labbra lunghe, prima di ridere piano. Non prende un aereo da cinquant’anni esatti e non si ricorda più come funziona. Perciò, mi chiede tante cose semplici, come farebbe una bambina: ‘perché fa così freddo qui sopra?’, ‘Si vedranno le città dal finestrino?’, ‘Quanto manca?’, oppure:

-               È difficile fare il pilota?

-               Immagino di sì, deve essere un mestiere difficile quello dei piloti.

-               Que Dios los bendiga!

Parliamo solo in spagnolo, io le rispondo sempre piano – per non fare errori – e forte – per spiegare bene, come faccio a scuola con le regole di grammatica.

A Tereza dispiace che non le sia toccato il sedile vicino al finestrino perché le sarebbe piaciuto tanto guardare il cielo intorno al nostro aereo. Ma quando si sporge per sbirciare la visuale, distoglie subito lo sguardo e scoppia a ridere – gli occhi neri truccati che luccicano, le mani che corrono sulle guance.
Tereza, ve l’ho detto, ha paura di volare. Talvolta l’aereo attraversa una nuvola e dal vetro scorrono strisce di vapore come ruscelli innevati. Più sotto, tutto è grigio perché piove molto a Città del Messico in questa stagione. Tereza mi chiede allora se siano proprio nuvole quelle lingue biancastre che vede. Le dico di sì: sono nuvole e sicuramente ce ne saranno anche altre sopra di noi. È stupefatta – apre un poco la bocca, spalanca gli occhi, si sistema i capelli sulle spalle. Per qualche minuto pare pensarci, a quelle pennellate di nuvole. Poi mi guarda – sognante, le mani aperte verso l’alto – e mi dice:

-             Il cielo non ha fine.

Sì, Tereza, il cielo non ha fine ed è per questo che alcuni uomini sognano di volare.
Tereza ha paura anche di un’altra cosa e me la dice lei stessa, così: della vita ‘con la Solitudine’.

-                Adesso non sono nervosa perché sto parlando con te.

Me lo dice, pacata e lenta, poi guarda di nuovo lontano, come cercasse qualcuno.
Il marito di Tereza è morto tanti anni prima. Non so quanti anni siano quei ‘tanti’ che dice, ma lei si gira e rigira la fede sul dito, come fanno le spose.
-          
            Hai provato la cucina messicana? – mi chiede all’improvviso.

Sa che risponderò di sì: quesadillas, empanadas, fajitas, tacos, … che brava cuoca deve essere Tereza! Lo vedo da come muove le mani quando mi racconta delle sue ricette: pare davvero tagliare a fettine le verdure, sfilacciare la carne, schiacciare la pasta, avvolgere i ripieni.

Quando gli assistenti di volo passano con il carrello delle bevande in vendita, Tereza vuole offrirmi un cappuccino ma non ricorda il codice della sua carta di credito per poterlo pagare. Allora manda un messaggio a suo figlio perché non sa che i telefoni cellulari in aereo non funzionano. Quando glielo spiego, ride. Cinquant’anni fa era tutto così diverso.

Parliamo allora del suo Messico, dei luoghi che lei stessa ha visitato e di quelli che ci mancano da vedere. Mi piace sentirla parlare del mondo che conosce perché so che lì si sente sicura: parla più rapida, stringe le labbra perché i ricordi non scappino e le restino vicini. Anche le parole a volte fanno compagnia.

Tereza sogna di vedere Parigi e mi chiede se dove vivo io le sia lontano. È un po’ confusa sulla geografia, mi ci vorrebbe una cartina d’Europa per spiegarle per bene. Con le dita disegno allora linee immaginarie del mio Mediterraneo, dello stivaletto italiano e poi un punto, più a ovest, che è la capitale francese. Quando le parlo del mondo, Tereza si sporge un po’ dal finestrino, quasi a cercare quel punto. Sotto di noi si scorgono già le luci dorate di Città del Messico, i tettucci bassi delle case, i lampioni. Lungo i viali, le automobili sono punticini lucenti impazziti.

-             Non vedo l’ora che l’aereo si abbassi – mi dice, concitata, Tereza.

Ha una voce dolce e flebile, con il rombo dell’atterraggio imminente quasi non la sento. Apre la sua borsa di pelle nera sgualcita, legge qualcosa scritto a penna su una agendina, richiude la cerniera. Mi accorgo allora che la maglia azzurra che indossa è piena di fiori rossi, gialli e rosati. I suoi capelli lunghi sono ancora neri e pieni di onde. Tereza si fa un segno di croce e chiude gli occhi: la Madonna di Guadalupe ci aiuterà ad atterrare come si deve.

Quando l’aereo è ormai fermo e si possono finalmente slacciare le cinture, Tereza è impaziente: suo figlio la aspetta. Prima di affrettarsi al portello di sbarco mi dice che non prenderà mai più un aereo, ha deciso così. Né visiterà mai Parigi perché è troppo lontana e ci si arriva solo volando. Io la guardo e le vorrei dire di non avere paura e che nessun luogo è mai troppo lontano per raggiungerlo. Ma Tereza non è triste, per niente.

-           Bisogna conoscere le cose nuove finché si può perché la vita è imprevedibile,       Micol. Continua a viaggiare tu, tu che ci sei abituata. Hasta luego!

Mi saluta, Tereza, e corre impacciata all’uscita con la sua borsetta nera e gonfia di oggetti tra le mani, i suoi orecchini di rose tintinnano e ciondolano. In un attimo non la vedo più, scompare tra la folla del trafficato aeroporto di Città del Messico.

Sbrigati, Tereza, hai ragione tu: la vita non aspetta e se hai paura di volare, non importa, ché il cielo è senza fine lo stesso.