Saturday, March 29, 2014

Il Texas incantato: serata a Grapevine


Una bandiera americana lungo
Main Street, Grapevine.
Ho solo poche ore a Dallas Fort Worth prima che arrivi la sera e con essa l'imminente volo che mi aspetta per tornare in Italia. Che fare? dove andare a passare quel così poco tempo a disposizione per riuscire a portare a casa un'immagine o un suono memorabile e unico del Texas? Mi rivolgo a CJ, un ragazzo simpaticissimo e amichevole che lavora presso l'albergo in cui alloggio. Mi riempie di suggerimenti e consigli e si scusa tanto perché il collegamento con i servizi pubblici tra l'aeroporto Dallas Fort Worth e la città stessa di Dallas è complesso e decisamente troppo poco rapido per il breve tempo che ho a disposizione. Quasi rassegnata a passare quelle poche ore in albergo prima del mio volo dell'indomani mattina, vengo invece rassicurata da CJ che mi propone di prendere un piccolo autobus colorato che passa ogni ora esattamente davanti all'hotel e arriva in pochi minuti alla città di Grapevine. "Vai lì", mi dice entusiasta, "sono sicuro che ti piacerà!". Mi mette tra le mani, senza accettare discussioni, una banconota da cinque dollari, il suo piccolo gentilissimo regalo personale affinché mi compri il biglietto per l'autobus colorato.

Seguo volentieri il consiglio del mio nuovo amico e lo saluto mentre il simpatico mezzo si ferma davanti all'ingresso dell'hotel. Lo guida un cordialissimo signore sulla settantina che non fa mancare un allegro saluto e un grande sorriso ad ogni passeggero. Durante tutto il percorso osservo le strade che mi scorrono intorno: sono ampie, liscissime d'asfalto grigio chiaro, ordinate e al contempo così largamente intersecate tanto che, sorridendo, immagino me stessa alla guida su una di esse, io che non amo affatto guidare e mi sento persa al di fuori dalle famigliari stradine della mia città. Tutto è illuminato da luci intermittenti ma tranquille, non trovo il caos delle grandi città, né l'esagerazione che ci viene in mente quando pensiamo agli Stati Uniti e alla loro immensità slargata, a quell' "americanità" vasta ed esilarante che scuote noialtri europei in quelle ampiezze riempite da uomini e cose mentre la piccola Europa saluta da lontano con le sue casette schiacciate, i suoi Stati abbracciati in un piccolo spazio, come in quelle famiglie numerose dove, quando nasce qualcuno, non si costruisce una stanza ma ci si stringe un po'.

Main Street, Grapevine, Texas.
Trovo invece tanta serenità in quel paesaggio pacato e dai rumori ovattati del tardo pomeriggio texano, poco più tardi del tramonto, quando il sole ancora si vede in una smilza striscia di fuoco ma il buio si scioglie pian piano d'intorno e copre il cielo intero di una tinta più scura, ma liscia e intoccata da nuvole od ombre. Quando l'autobus si ferma, scendo in una strada rettilinea e lunga, piena di luci, come fosse ancora Natale, benché sia ormai la metà di Gennaio. Ancora decorazioni luminose sfavillano ovunque come a ricordare le feste appena trascorse, e lampeggiano allegre su ogni profilo di casa, come in un disegno di raggi di neon.

Sculture in ferro texane a Grapevine.
Vetrina di un negozio a Grapevine.
Cammino lungo la via, noto qualche alta automobile parcheggiata vicino ai marciapiedi, e guardo l'infinita serie di piccoli negozi, quasi tutti ormai chiusi a quell'ora serale, ricolmi di oggetti carini, dalle forme più strane. In una vetrina vedo tanti coniglietti, di ogni dimensione e materiale, che sembrano alzarsi sulle zampette scattanti per guardare oltre il vetro. Alcuni di loro vestiti di abitini succinti e pomposi, circondati da cigni, fiocchetti, ovettine, alberelli di plastica rosa. Un mondo rosato di nastri e candele, nella vetrina di quel piccolo negozio. Tocca poi a un bar-ristorante di Grapevine il cui ingresso mi abbaglia di luce e natura: una pianta rampicante un po' secca, intersecata a una fila di sprazzi argentati, una panchina di legno dipinta di verde all'ingresso, il menù scritto a gesso su una lavagna squadrata. Continuo ad ammirare i negozi che sfilano e, infine, vedo una parete che parla e mi dice: "Qui, mia cara, non siamo altro che in Texas!": cerchi di ferro e metallo stellati, ripieni di enormi stelle annerite o forme di tori e pistole, una parte di America fiera e pugnace che mi mostra tutto quello che è.


Presepe lungo Main Street, Grapevine.
Arrivo poi ad una chiesa di legno bianca, pare quasi una casa, con un grande ingresso a gradini sottili e un prato ancora verde davanti. Benché sia gennaio, il clima era stato bellissimo durante le ore di luce e anche alla sera il freddo non punge, non graffia, raffredda soltanto le mani e la punta del naso. Davanti alla chiesa vedo un presepe di statue di terracotta dipinta da tanti colori in una capannina col tettuccio di paglia intrecciata. Natale è passato ma un senso di tranquillità e calore avvolge il visitatore di quella singolare cittadina fiabesca. Grapevine è così, calma, mansueta, fondata nel 1843 da un lungamente atteso accordo tra i rappresentanti della Republic of Texas guidati dal generale Sam Houston e i membri delle dieci nazioni indiano-americane. Grape Vine Spings divenne il luogo prescelto per stabilire una pace perenne col trattato di Birds Fort. Arrivarono così i primi abitanti della futura Grapevine, nata ufficialmente un anno prima che il Texas diventasse parte integrante degli Stati Uniti d'America e che oggi conta circa 50.000 abitanti.

Murales a Grapevine.
Poco più avanti un muro grigiastro rivela un murales che sa di passato. Tanti uomini e donne, seduti ed in piedi, ascoltano, parlottano, ci guardano seri. Alcuni di loro tengono degli strumenti: sembra quasi di poterla sentire la musica di banda e parata in una sera così silenziosa. Portano cappelli dalla falda grande, gonne lunghe, bretelle e scarponi. Un bambino con un cappellino di lato sul capo si affaccia dalla porta dell'emporio, curioso di ascoltare quella semplice orchestra che si appresta a suonare. Anche un cagnolino passa distratto nel sole e una bandiera americana sventola gagliarda tra insegne, festoni e tabacco.

I Sunday's Skaters a Grapevine.
Ammiro il murales per un po', poi riprendo a camminare, quasi salutando quei personaggi antichi che per un po' mi hanno tenuto compagnia. Poco più avanti noto delle figurine in corsa, dei ragazzini coi pattini ai piedi. Uno di loro è scivolato e guarda con un po' di imbarazzo il cagnolino che si è fermato accanto a lui, quasi a soccorrerlo. La ragazzina davanti invece, ignara dell'imprevisto dell'amico, continua a pattinare sicura sul marciapiede. Una terza bambina procede cauta, la sua mano sfiora il cancello per cercar sicurezza, i suoi piedi avanzano piano a piccoli passi slittati, per raggiungere l'amico caduto. Ma non si tratta di ragazzini reali, sono statue, i "Sunday's Skaters" (=I pattinatori della domenica), ispirate a fotografie di tre bambini che crebbero a Grapevine negli anni venti e trenta del Novecento. Lo stesso cagnolino, presente nelle fotografie orginali, era solito a quel tempo correre libero per le strade del centro. Mary Virginia, J.E. e Dorothy Bess vissero qui tutta la loro vita e la loro spensieratezza, la loro allegria ragazzina, rivive tuttora agli occhi di ogni visitatore di Grapevine.


Mi fermo per cena al Napolis Italian Café, attirata dall'atmosfera ovattata e del calore dorato che quel posto emana attraverso le sue vetrate affacciate su Main Street. Tanti clienti quella sera stanno già cenando e mentre il cuoco latino mi saluta più volte dalla cucina, ordino la zuppa "Italian Wedding" (=matrimonio italiano), accattivata da un nome così invitante. Si tratta di una piccola zuppa servita in una tazza grande di piccole palline di pasta, spinaci e le immancabili meatballs (=polpettine). Il proprietario si avvicina e mi chiede da dove vengo, e non appena sente la parola "Italy", si scioglie in sorrisi ed entusiasmi, come quasi tutti gli americani che ho incontrato in questi tre giorni di Stati Uniti. Poi, divertito e probabilmente già conoscendo la risposta che lo attende, mi chiede se il cibo che ho mangiato è uguale a quello vero italiano. Rido e dico di no, ma che è buonissimo lo stesso, ed è vero. Poi lascio il ristorante, mi incammino verso la fermata dell'autobus quando noto che lo stesso Napolis Italian Café è anche una pasticceria, proprio nella sala accanto a quella dove io ho appena cenato. Rientro, per il divertimento del proprietario, che mi saluta di nuovo fingendo scherzosamente di non avermi mai vista prima. Compro quattro grossi cioccolatini dai diversi gusti da regalare ai miei nuovi amici della concierge dell'hotel, tanto gentili da avermi consigliato una città memorabile come Grapevine.



Quando scoccano le dieci e mezza, aspetto il ritorno dell'autobus colorato che arriva puntualissimo alla fermata. L'autista ha voglia di chiacchiere e io pure: sono l'unica passeggera del mezzo a quell'ora e passo tutto il viaggio in piedi vicino a lui, che mi racconta la sua vita di autista del pulmino colorato. Chiede di me, del perché sono qui in Texas, mi dice di tornare presto negli Stati Uniti, di tornare presto a Grapevine perché sono benvenuta. Tornata all'hotel, ritrovo CJ, Kelly e Rogelio, i miei nuovi amici qui a Fort Worth, che gustano felicissimi i cioccolatini che io ho comprato per loro. Quando è ormai tardi li saluto e vado a dormire, anche loro mi invitano a tornare in Texas a trovarli. "La prossima volta", mi dicono, "prenderemo un giorno di permesso dal lavoro e visiteremo insieme tutta Dallas! Torna presto!".






Monday, March 17, 2014

Forsyth's Tea Room: tè e fette di torta ad Edimburgo

L'insegna che ci guida verso la Forsyth's Tea Room.
Che bello passeggiare per le vie di Edimburgo, seguire un buon consiglio, e ritrovarsi in una delle tea room più carine di sempre! Siamo a gennaio ma il sole ci sorprende nella capitale scozzese e ci permette di camminare instancabili per la città senza soffrire il freddo invernale, godendoci a pieno le meraviglie del centro. Ci sfuggono anche gli italianissimi rintocchi incorporati dell'ora di pranzo imminente, tanto siamo rapiti da tutt'altra bellezza. Castello, monumenti, museo dei ritratti fotografici, negozi di whisky, di kilt, di biscotti al burro, ... tutto ci attira e ci affascina indistintamente! Ma alle tre passate lo stomaco langue e cerchiamo allora quel posticino consigliatoci, un po' incerti su dove possa essere. Del resto, eravamo passati così tante volte sulla High Street e non ce ne eravamo mai accorti. Eppure, poco dopo, ritornando sulla via che ci sembrava così famigliare, eccola lì, l'insegna della Forsyth's Tea Room, come apparsa per la magia di quando si cerca qualcosa e la si trova inaspettata, a condurci a sé attraverso una piccola stradina interna.

Fila di copri teiera, nella Forsyth's Tea Room.


Arriviamo nella sala da tè più confusamente carina di sempre. Una stanza strettina, un lunghissimo tappeto multicolore sotto i nostri piedi, i muri di pietra, i tondi tavolini ordinati, le mensole affollate di oggettini e stranezze che ricordano la casa di una nonna un po' estrosa o la camera di un bambino delle favole. Ricami ad uncinetto appesi come piccoli arazzi di un castello di tè ci ricordano di stare comodi in un luogo confortevole ad accogliente come un salottino famigliare, una cucina in una casetta nel bosco. Piattini dai colori sgargianti troneggiano ovunque, fiorellini veri e finti ricordano un allegro prato, e anche se fuori è ancora gennaio, lì dentro è già primavera. Guardiamo sorridendo la fila di copri teiere, appese come panni puliti all'aria aperta: ce ne sono di ogni forma e colore, nell'ordinata confusione della sala da tè.





I dettagli di un tavolino alla Forsyth's Tea Room.

Scegliamo il tavolino più grande, uno degli ultimi, più vicino ai giocosi decori fiabeschi, un po' appesi, un po' esposti, un po' messi lì, solo per gli occhi di chi restringe l'occhiata e nota i dettagli più spiritosi. La tovaglietta gialla rallegra il tavolino con dei fiorellini magri in un vasetto di vetro, due appuntiti contenitori di sale e di pepe e una vaschetta porta zucchero coperta da un tenerissimo cerchietto frangiato all'uncinetto. Il menù è vario, deliziosissimo. Ci sono diversi tipi di tè, e si può scegliere se si preferisce una "mug" un po' più grande, o solo una "cup", una tazza più piccina. Ci sono torte, pasticcini, "pies" di ogni genere e varietà, e c'è una signora a prendere gli ordini e a preparare la nostra merenda. Questa signora è alta, leggera, dalla voce cordiale e affabile e dai capelli quasi blu. Mi sembra una fata madrina coi suoi modi gentili e pacati, le sue chiacchiere allegre, le sue tazze spaiate. Ci porta le grandi fette di torta che abbiamo ordinato insieme al nostro tè bollente, in tazze di colori e forme diverse: è tutto scombinato nella Forsyth's Tea Room, come sulla tavola del ricevimento di "Alice nel Paese delle Meraviglie", dove c'è un po' di tutto, mischiato, arruffato, un girotondo di bricchi e cucchiai, forchette e piattini impazziti. 


La signora turchina ci saluta tantissimo quando è ora di andare e da dietro il bancone dei dolci la vediamo sistemare qualche bustina di tè, ripiegare un asciugamano, ammucchiare i nostri piattini diversi ormai vuoti e reimmergersi nel suo mondo incantato in una viuzza nascosta di High Street. Lasciamo quel piccolo angolo di magia ripromettendoci di tornare nella nostra prossima volta ad Edimburgo, per una dolce fetta di torta e un momento in un mondo confuso e felice. Rivediamo alla sera la signora dai capelli quasi blu camminare verso casa con una piccola valigia. Attraversa la strada e ci vede, allora si ferma sul marciapiede e ci saluta dall'altro lato del corso, con la stessa allegria e gli stessi modi incantati. Chissà cosa porta nella sua valigetta, forse i piattini più vispi e le forchettine più allegre, forse dei fiori  loquaci o una tazza impacciata o forse una fetta di torta rimasta da gustare alla sera con un tazza di tè.


Interno della Forsyth's Tea Room.








Friday, March 14, 2014

Aria di Natale ad Edimburgo

La vetrina natalizia di un negozio di kilt
e oggetti scozzesi su Princes Street.

Mancava poco a Natale quando visitai per la prima fuggevole volta il centro di Edimburgo. Arrivai col treno alla stazione Waverley e sapevo che avrei avuto solo poche ore serali a disposizione per assaggiare questa città, dove poi sarei tornata, tante volte, per visitarla a pieno solo un anno dopo. Appena emersi in superficie dalla sotterranea stazione, venni invasa da una sensazione sfavillante ed inconfondibile: era Natale, era Natale dappertutto nel centro di Edimburgo e non avrebbe potuto essere altrimenti. Mi trovai subito circondata da persone che camminavano frettolose, tenendo per mano i bambini che corricchiavano, scappavano verso le luci e i giochi, e a volte più lente, assaporando, come me, ogni angolo e ogni dettaglio di quel tripudio di gioia. 


"Edinburgh's Christmas",
ingresso alla città del Natale.
Mi incamminai lungo la famigliare Princes Street, un ampio viale pressoché interamente pedonale, dove decine di negozi di ogni genere si susseguono allegramente. Vetrine coloratissime, decoratissime, pienissime di tutte quelle cose che non ci servono nemmeno, ma che è bello ammirare nel loro splendore di brillii e luccichii quando arrivano le feste. Eppure quello che mi colpì di più fu proprio al di fuori di quegli infiniti negozi. Mi addentrai, infatti, nella città del Natale, l'area dell' "Edinburgh's Christmas", costruita appositamente per divertire ed intrattenere con quanto di più desiderato e tradizionale ci possa essere a Natale. "Non fa poi così freddo", pensai, e mi inoltrai volentieri tra le stradine del mercatino natalizio all'aperto. Subito venni attirata da una grande casetta di legno ricolma di cappelli pelosi, colbacchi, guantini morbidi e vaporose muffole. Nonostante la noncuranza iniziale, mi accorsi dei miei piedi gelati e comprai due paia di simpatici calzettoni a righe grige e argentate, ottimo rimedio contro il secco freddo dicembrino che cala su Edimburgo e resta con lui fin sul finir dell'inverno.

Una piccola parata scozzesi di ragazzi e tamburi lungo Princes Street.

Le lucidate casette si susseguivano una con l'altra, emanando forti sapori: a volte acri e decisi, di specialità tedesche e autriache, a volte dolcissimi, di zuccherosi biscotti, di cup cakes e di frittelle. I visitatori, forse in cerca di un po' di calore, si schiacciavano nelle casette più tiepide, chiacchieroni e ridenti, come in una festa. Mi imbattei d'improvviso in una piccola parata scozzese. Gruppi di bambini e ragazzi sfilavano in marcia e si fermavano a conca per suonare e cantare a gran voce delle belle melodie del passato. Li vidi portare con orgoglio e scioltezza il tipico kilt scozzese, dai colori più vari. Ce n'erano di blu scuro, di verde, di rosso, di viola, ... Nonostante le uniformi leggere, i suonatori parevano non sentir freddo, forse era l'emozione dei cuori che li riscaldava invisibile. Rullavano, rimbombavano i tamburi, strillavano le trombe, sbattevano i piatti, si innalzavano forti le voci, richiamando tutti, bambini e grandi, indaffarati e perditempo, per un breve spettacolo immancabile nel Natale di Edimburgo.


L'autobus rosso adibito a caffetteria.
Fui colpita e attirata anche dalla scritta
"It's warm inside" ("è caldo all'interno")

Proseguii la mia passeggiata, saltellando al ricordo di quei ritmi esultanti, finché mi accattivò all'improvviso una curiosa struttura: si trattava di un autobus rosso brillante, di quelli che si vedono in Gran Bretagna, che si disegnano sui libri di inglese e su cui ognuno di noi vorrebbe salire almeno una volta. Ma ecco la sorpresa: non era un normale "bus", bensì un'originalissima caffetteria, con tè, caffè e pasticcini. Erano proprio le cinque: mi fermai per una tazza di tè caldo, salendo al secondo piano dell'autobus fermo. I suoi sedili in velluto castano erano morbidissimi e accoglienti. Non conoscevo nessuno ma con gli altri passeggeri ci scambiammo fin da subito occhiate ridenti e sorrisi divertiti. Chi mai non vorrebbe prendere un tè natalizio su un autobus rosso britannico?


Una favolosa giostra di cavalli nella zona di "Edinburgh's Christmas".

Arrivò la mia fermata immaginaria e scesi presso una grande briosissima giostra. Ho sempre amato le giostre dorate con i cavallini di diverse misure, di diversi colori che saltano, trottano, galoppano. E quella era una giostra dei sogni: i bambini ci salivano estatici, scegliendo con cura la loro carrozza, il loro destriero e vi saltavano in groppa sicuri o con la mano di mamma o papà. Poi iniziò la passeggiata rotonda, i cavallini splendevano nella luce già scura del pomeriggio scozzese, la musica tintinnava allegrissima, i colori si mescolavano in arcobaleni di risa e brillii di pensieri. Nel cielo si vedevano verdi ghirlande, palline liscissime e lustre, lucine indecise che apparivano, scomparivano, singhiozzavano nei riflessi di specchi radiosi.


Dall'alto osservai quella festa di gente e di immagini: la grande ruota panoramica dominava la visuale, coprendo un po' il severo Scott Monument, simbolo indimenticabile di Princes Street Gardens. Lo Scott Monument è una struttura un po' fosca, quasi corrucciata, a memoria dello scrittore scozzese Sir Walter Scott, la cui statua di pietra grigia troneggia immutabile e riparata al suo interno. Una rocciosa pedana appuntita e aghiforme, che vide la sua completezza nel 1846 e nacque dal progetto di George Meikle Kemp, il quale annegò per disgrazia in una sera di nebbia e ricordi nel 1844. Forse è per questo che lo Scott Monument ci appare un po' triste, così gotico, così vittoriano al contempo. Tuttavia in quella sera scozzese anche lui mi sembrò un po' più vispo di quando lo vidi altre volte, in passato e in futuro. Forse un raggio di sole, spuntato di sorpresa sul far del tramonto, ricordò che, in fondo, era Natale, e gli intimò di guardare i bambini, la gente, la festa che c'era, ricordandogli che non era solo.

Visuale dall'alto della zona "Edinburgh's Christmas". Al centro si nota la grande struttura scusa dello Scott Monument, su Princes Street Garden, all'imbocco di Princes Street. In primo piano in basso, la città del Natale.



Thursday, March 13, 2014

Rosso ed eterno: grandi e piccole meraviglie di Mosca

Sono stata più volte a Mosca, una metropoli unica al mondo, segnata ineguagliabilmente dalla sua intricata storia di glorie e di drammi. Il suo dualismo tuttora mi destabilizza: una città che accoglie cordiale il visitatore curioso ma che ostacola quello spaurito. Una città che mi ha mostrato senza vergogna il suo carattere più ostile e irruento insieme alla sua natura più mite e cortese. Mosca matrigna di chi la vive con gli occhi ben aperti e vi si butta a capofitto senza misura, e Mosca mammina di chi vi si accosta senza capire o di chi la ama nonostante tutto. 


La Mosca delle cadenti case sovietiche delle periferie, delle giornate di pioggia sottile e del freddo mordace, dei sorrisi mancati sui volti, delle lignee portone incuranti che sbattono al vento e al cipiglio degli occhi che schivano, dritti e inflessibili, il disamore che c'è. La Mosca dei balletti sognanti, dei signorili palazzi, dei fiori sgargianti per le innamorate, dell'arte che vive inestinta, della luce eburnea delle sere d'estate, delle cupole di legno e di oro, di un Dio che consola e perdona la città che più di altre fiorì, poi soffrì, poi lottò.

Una punta del Cremlino di Mosca spunta dietro agli alberi. In primo piano: un ampio stradone trafficato.

Mi ritrovai in un giorno d'autunno inoltrato, con pochissimo sole tra grandi nuvole grige addormentate sulla città. Camminavo e camminavo per le immense vie di Mosca, ora rincuorata da un angolino famigliare, da un cartello assecondante, ora persa in una miriade di burberi edifici svettanti e seri. Arrivai finalmente a un incrocio di strade veloci, straordinariamente grande. Un sottopassaggio mi portò dall'altra parte di quel fiume in piena di automobili e moto e vidi lo strabiliante spettacolo del Cremlino (Кремль, in lingua russa, pronunciato "Crieml"). Incredibile fortezza mattone, intoccabile, eterna. Fondato in un tempo indistinto, insicuro, il Cremlino di Mosca divenne dimora inviolabile dei principi moscoviti nel 1264. Nei secoli a venire si espanse smisurato: forti, torrioni, muraglie, migliaia di mattoni rossi che si unirono uno sull'altro per far nascere un inespugnabile sempiterno Моско́вский Кре́мль (pronuncia: "Mascòvski krièml"), il Cremlino moscovita.




Le mura esterne del Cremlino di Mosca,
passeggiando per il Giardini di Alessandro.
Circondato a occidente da uno sconfinato Giardino di Alessandro, in russo, l'Александровский сад (pronuncia "Aleksàndrovski sad"), creato nel 1819 dall'architetto neoclassico Giuseppe Bove e tinto, in autunno, di ambra e castano. Cammino lungo le mura, tra l'erba ancora verde e le foglie ormai cadute. L'imponente gigante vicino a me non fa alcuna paura in quell'ambiente sereno e silenzioso, così distante dal caotico rombare di automobili e sferragliare di traffico di poco prima. Il magro sole del primo pomeriggio incomincia a ritirarsi, un venticello già freddo di inverno soffia leggero e pungente in autunno.


I Giardini di Alessandro, adiacenti al Cremlino di Mosca.

Cammino ancora quel pomeriggio, tantissimo, e arrivo finalmente ai piedi del simbolo di Mosca, a oriente del Cremlino, la Красная площадь (pronuncia: "Kràsnaia plosh'ad'), la Piazza Rossa. Facile pensare che il suo nome così rinomato nei secoli derivi dalla vista inconfondibile di un colore: il rosso. Rosso il Cremlino, rossa la Porta della Resurrezione che ad esso conduce, rosso il Museo di Storia Russa, un po' rossa anche la Cattedrale di San Basilio, rosso di idee e di mattoni il Mausoleo di Lenin. E invece no, viaggiatori, Mosca stupisce e ci inganna con la sua lingua complessa ed astuta: красный (pronuncia: "krasni"), infatti, fu nel passato sia "rosso" che "bello" ed è da quest'ultimo significato che la piazza ereditò il suo nome così altisonante, "Piazza bella". 

La Cattedrale di San Basilio sulla Piazza Rossa, Mosca.
Quanti tratti di Mosca potrei raccontare, quanti dettagli nascosti e tuttavia più significativi di tutto il resto! Ma vi racconterò ora una cosa, che mi successe per ricordarmi di amare Mosca, di amarla anche se poteva ferire, con la sua incostanza severa e la sua austerità enigmatica. Per accedere alla Piazza Rossa vi è una porta, di cui già vi accennavo. Si chiama, la Porta della Resurrezione (Воскресенские ворота, pronuncia: "Vaskresénie varòta"). Era il 1630 quando la Porta fu ricostruita e arricchita da due maestose torri appuntite, a custodia di un'icona di Gesù risorto, posta sulla facciata interna, che donò il nome al solenne ingresso. 

Vista della Piazza Rossa, Mosca. Sulla destra: i magazzini GUM, al centro: il Museo della Storia Russa.
Davanti alla Porta c'è una porticina, nel mezzo di quel tripudio di forme vermiglie, così timida e dimessa, di legno scuro e di pietra dipinta di un acquoso celeste. Si chiama Cappella Iberica, in russo И́верская часо́вня (pronuncia: "ibèerskaia chasòvnia") ed è uno dei posti più eterni che io abbia mai visto. Quasi nascosta, nonostante la sua posizione centralissima, la notai per puro caso, semplicemente perché ci vidi un uomo entrare. Un uomo molto alto e magro, giovane, nonostante la folta, lunga, arruffata barba castana. Portava una tunica nera severa e fluttuante nei suoi passi allungati, un copricapo tondo e schiacciato: era un pope. Lo vidi entrare da una porticina di legno ignorata da tanti. Vidi una donna ed un bambino seguirlo attraverso la medesima porta e decisi allora di fare lo stesso. Quando varcai quella umile soglia mi ritrovai in una cappella, una piccolissima, impensabile cappella dorata e luccicante di icone e mosaici dei Santi tra cui spiccava più in rilievo, più brillante e splendida delle altre, l'icona della Vergine Iberica.

Imparai solo in seguito che la cappella piccolissima fu costruita in legno nel 1669, e poi ricostruita in pietra. Un tempo passaggio tradizionalmente obbligato per ogni viaggiatore in visita alla Piazza Rossa, la Cappella Iberica mi parve fin da subito un unico eccezionale luogo di silenzio e contemplazione dove ricchi e poveri si stringevano intorno ai volti dei Santi, dei martiri e di Dio. Ricordo una mamma col capo coperto da un velo allacciato sul collo incoraggiare il figlioletto verso una delle meravigliose icone. "Yesùs?" chiese il bambino, non sapendo verso quale di quelle bellezze di minuzia e pazienza recarsi. La mamma mosse il capo in segno di assenso e il bambino camminò sicuro verso Gesù, la sua piccola mano contro il vetro per toccarlo, e poi sempre la sua piccola mano che lasciò cadere un'immaginetta nella scatolina delle offerte.

Rimasi nella cappella a lungo, rapita dalla magica atmosfera sospesa, rituale. Ascoltai con trasporto il giovane pope leggere cantilenante una preghiera in poesia e i fedeli stipati con me in quel minimo spazio ripeterne i versi cantando. Fui come stregata da quella canzone di Dio e non potevo credere che solo al di là della porta di legno esistesse anche un mondo rumoroso e rapido. L'aria odorava di candele, di cera e calore. Può, viaggiatori, un dettaglio come questo, una cappellina così angusta e piena, restare tanto impresso nella memoria, quasi offuscando l'immensità di tutto il resto? Forse sì, e non nella Mosca tagliente, dispettosa e arrogante, con la sua immensità smisurata, la sua alterigia svettante visibile ovunque, se solo si alza lo sguardo. No, non lì... è possibile altrove, nella Mosca che viaggia oltre al tempo, che abbaglia di luce e di musiche arcane, che un po' rende tristi ma poi vuol far pace e ti mostra qualcosa così, all'improvviso, un ristoro e un sollievo da cercare in eterno.




Tuesday, March 11, 2014

Farinate e Campionissimi: un pomeriggio a Novi Ligure

Un piattino bianco semplice appoggiato su un tavolo di legno. Un davanzale riempito di tappi di sughero profumati ancora di vino. Un forno ampio, basso, di quelli profondi profondi  che fanno quasi spavento, ma che sfornano delizie dal sapore antico e sorrisi dalle bocche di chi assaggia. Siamo a Novi Ligure, al ristorantino “La Rotonda”, dove il piatto forte è la farinata di ceci, una deliziosa e semplicissima frittatina di acqua, ceci, sale ed olio, un abbraccio di ingredienti venuti dal tempo dei grandi imperatori romani e poi perfezionato dai Genovesi poco prima che Colombo scoprisse l’America.

Infatti, è proprio dalla città della focaccia e del pesto, Genova, che la farinata inizia il suo viaggio. Arriverà, secoli dopo, nell’ardente forno di un ristorante di Novi che di ligure porta il nome e la paternità antica – fu infatti fiorente centro nella Repubblica di Genova nel XV secolo - e di piemontese i ricordi -visibili nelle vecchie “trunere”, case di terra cruda - e le dolci glorie – gustabili nei sapori freschi e vellutati dei budini Elah Dufour, nella ricchezza croccante del cioccolato Novi, nella cremosità leggere di Pernigotti.

Un pomeriggio a Novi Ligure che inizia con un bel pranzo di farinata e crescenza e prosegue con morbidissime pizzette al tegaminocon la panissa, una polentina fritta servita a fettine. Infine, per addolcire le bocche, ci regaliamo un bel tris di dolci, presentati teneramente in tre piccole ciotoline: una dorata cremina catalana, una dolce pannina cotta, una fondente moussettina al cioccolato. Strette di mano e saluti con gli affabilissimi proprietari non mancano prima di tornare a pancia piena e passi lenti verso le nostre automobili parcheggiate non lontano, nella città vecchia. Le strade si restringono, si acciottolano. Le case smagriscono, invecchiano, si nascondono dietro bassi portoni ma si colorano di antico, di passato: giallo, arancione, rosa, azzurro. I colori si susseguono pacati, sbiaditi e vividi insieme, in un pomeriggio di pioggerella insicura e di freddo tagliente. 

Chissà se in quello stesso freddo, tanti anni prima, stesse pedalando a gran velocità un uomo magretto e leggero di nome Fausto Coppi. I suoi polmoni raccoglievano più aria dei polmoni degli altri, il suo cuore batteva più lento di ogni altro cuore. La sua tenacia e la sua resistenza lo portarono a diventare uno dei più grandi e conosciuti atleti del ciclismo italiano di tutti i tempi. A lui ci dedichiamo, in un piovoso pomeriggio novese: ci avviciniamo al Campionissimo, alla sua storia, ai suoi scandali, alle sue vittorie, ai suoi ricordi. E con essi, a tutti quei solchi lasciati da altri grandi del ciclismo, uomini e donne vittoriosi, caparbi, indimenticati. Tutto ciò, grazie al magnifico allestimento de “Il Museo dei Campionissimi”, dedicato agli eroi delle due ruote. 

Al nostro arrivo, un’ampia scalinata ci conduce al paradiso dei cicloamatori. Una fila strabiliante di biciclette ci trasporta lungo la loro storia, in un passato dove postini, panettieri, arrotini, carabinieri e idraulici pedalavano instancabili per le vie della città e lo sferragliare della bicicletta del gelataio richiamava a sé tutti i bambini dei cortili per un bel cono fresco alla fragola o al cioccolato.
Museo dei Campionissimi, Novi Ligure


Novi Ligure ci propone questo viaggio e non solo: il suo Museo narra l’intera storia della bicicletta, fin dalla sua primissima infanzia. Una storia ricca di nostalgie, come la bici con cui Marco Pantani vinse il Giro D’Italia nel 1998, di glorie, come la appariscente maglietta rosa di Vincenzo Nibali, campione del Giro 2013, di stranezze, come la bicicletta senza manubrio di Giuliano Calore, di ricordi, come le nostalgiche foto in bianco e nero della campionessa Alfonsina Morini, prima donna a partecipare a competizioni fino a quel momento esclusivamente maschili. Del resto, proprio Novi Ligure è la città dove il “mago di Novi”, l’allenatore cieco Biagio Cavanna reclutò per primo sia Costante Girardengo sia il Campionissimo e li elesse a suoi migliori allievi, impareggiabili e imbattuti dalla storia.

Fotografia cartonata a grandezza
naturale di Fausto Coppi.
Museo del Campionissimo,
Novi Ligure.
Il tempo vola nel Museo dei Campionissimi, tra foto, trofei, maglie, memorie. Viene voglia di inforcare una di quelle splendide biciclette per pedalare anche noi tra le strade acciottolate di Novi, tra le campagne sbiadite di una giornata invernale e respirare a pieni polmoni un po’ di quell’aria che respirarono i grandi campioni del pedale.  Viene voglia di raccontare a tutti le avventure di Coppi, Girardengo e degli altri ciclisti che abbiamo conosciuto. Ci sembra quasi di vederli affannarsi per superare un avversario, allungarsi per ricevere una borraccia d’acqua fresca, socchiudere gli occhi per contrastare il sole. E forse, sembra di essere lì anche noi, nel 1949, a sentire la voce di Mario Ferretti esclamare: “Un uomo solo è al comando; la sua maglia è bianco-celeste; il suo nome è Fausto Coppi”.

Cosa sono i viaggi nel cassetto

Mi chiamo Micol e sono innamorata del Mondo, inevitabilmente e appassionatamente. Da bambina, venivo sempre chiamata da un mio compagno di classe con una parola: "viaggiatrice". Non aveva torto a chiamarmi così. Ho sempre viaggiato ovunque, infatti, fin da piccola, ereditando dalla mia famiglia l'amore incondizionato per il Mondo. Crescendo, mi sono appassionata sempre più alle sue culture, alle sue lingue e ai suoi volti. 
Ogni volta che metto piede in un posto nuovo faccio tutto quello che qualsiasi viaggiatore innamorato farebbe: cammino instancabilmente, esploro dettagliatamente, chiedo con discrezione, comunico con entusiasmo, assaggio con appetito, fotografo curiosa, scrivo. Ma in tutto questo non dimentico mai di fare una cosa in particolare, la più importante di tutte: osservare. Amo guardare negli occhi le persone che incontro durante i miei viaggi, adoro perdermi nei loro gesti, a volte lenti, controllati, altre volte frenetici, scattanti, inspiegabili o curiosi. Amo leggere i volti della gente indovinandone le storie, immaginandone le vite intrecciate tra l'architettura o la naturalezza di un luogo. Amo respirare a pieni polmoni e ricordare ogni profumo e ogni sensazione una volta tornata a casa. 
Per me, questo è viaggiare. E' partire con prudenza e coraggio, immergersi in uno spicchio di Mondo e carpirne il bello e il brutto, notarne similitudini e differenze. Viaggiare è volare con la mente oltre l'abituale, lo stereotipo, le premesse, è partire da umili e tornare da ricchi nell'anima, con una preziosissima valigia piena zeppa di immagini e suoni che ci hanno reso diversi, spesso migliori. Viaggiare è provare per un po' ad essere come qualcun'altro, a fare le cose di qualcun'altro, a vedere il mondo con gli occhi di qualcun'altro, senza perdere mai di vista se stessi.
Questo blog nasce per condividere con voi i miei "viaggi nel cassetto": quelli già fatti, il cui ricordo è lì, indelebile e memorabile in un cassettino della mia memoria; e quelli ancora da fare, riposti in un altro scomparto, traballanti, incompleti, ma pronti a saltare fuori e spiccare il volo al momento giusto.
Scriverò su questo blog, scriverò di tutto: i miei consigli, le mie impressioni, le mie opinioni, i miei ricordi. 
Scrivete, viaggiatori, anche voi e parlatemi dei viaggi che custodite con attenzione nel vostro cassetto.