Friday, November 27, 2015

Cucina albanese: Byrek

Durante le infinite chiacchiere con la mia amica albanese Xhulja si parla spesso di cucina, sarà perché ci vediamo sempre a lezione di ballo prima dell'ora di pranzo! :)
Qualche giorno fa Xhulja mi ha consigliato una ricetta del suo Paese ed io, che non mi lascio sfuggire alcuna occasione per assaggiare qualche sapore nuovo, ho deciso di metterla subito in pratica o meglio... in forno!

Si tratta di una torta salata realizzata con un impasto molto sottile e croccante chiamato yufka, la pasta filo,  fritto o cotto al forno, e riempito con diversi ingredienti. 
Ho letto che il Byrek nasce nel sud dell'Albania -sarà forse qualche lettore albanese a confermarmelo!-  ma è una pietanza diffusa in tutto il Paese.

Il mio primo esperimento di cucina albanese: byrek.
Si është receta? Quale è la ricetta?
Xhulja mi ha proposto la ricetta con gli ingredienti italiani più simili a quelli della tradizione albanese. Ecco il risultato :)

Ingredienti

pasta filo
300 gr di spinaci 
150 gr di ricotta
150 gr di feta / quartirolo  
(mezza cipolla)
due uova
sale e olio d'oliva

Prendere una terrina possibilmente di forma rotonda e ricoprirla con un filo di olio. Appoggiare i diversi strati di pasta filo sul fondo fino a creare lo spessore desiderato. 
Nel frattempo, bollire gli spinaci e strizzarli una volta raffreddati. Unire le due uova alla ricotta, alla feta/quartirolo tagliati a cubetti e ad un pizzico di sale.
Tagliare la cipolla a striscioline sottili ed unirla agli spinaci e al composto.
Versare il composto nella terrina e ricoprire con altri strati di pasta filo. Ricoprire con un filo d'olio.
Infornare a 250° per circa 20-25 minuti.

Të bëftë mirë!! Buon appetito!!



Sunday, November 15, 2015

Ceci n'est pas une religion: modesto pensiero sulla sentenziosità dilagante

Sono solita associare gli avvenimenti del mondo con i miei amici che in quelle parti di mondo vivono.  Lo fate anche voi?
Quando tutta la Grecia fu chiamata a votare nel referendum che la voleva fuori o dentro l'Unione Europea, ho subito immaginato la mia amica Christianna entrare in uno di quei gabbiotti di compensato tipici delle elezioni, afferrare una matita spuntata e crociare il futuro del suo Paese.
Quando in televisione arrivò la tragica notizia del distruttivo terremoto in Nepal, mi immaginai il mio amico Parth nella sua casa di Katmandu tremante nella furia della Terra.
Quando a Mosca fecero scoppiare delle bombe  nella  mastodontica metropolitana alla fermata Lubjan'ka temetti con orrore che il mio amico Denis fosse su quel  vagone quel giorno in quell'esatto momento.
Quando, pochi giorni fa, si parlò dell'attacco kamikaze a Beirut, pensai alla dolcezza infinita del mio amico Hussein quando una sera in cui ero triste mi aveva fatta parlare fino a farmi sentire felice.
Venni  a sapere dell'attentato di Parigi mentre stavo ballando. Io ballavo e qualcuno moriva o era già morto. Feci scorrere la lista dei miei amici parigini nella mente: 2, 5, 7, ... avevo tante persone da associare, tante persone per cui preoccuparmi  questa volta. 

Non si può pensare di addolorarsi sempre per tutti. Purtroppo nel mondo di atrocità  ne accadono ogni giorno e in ogni dove. Per questo motivo, lo ripeto, non si può pensare di addolorarsi sempre per tutti.
In questi giorni quando sento, leggo, vedo così tanto cordoglio e così tanta rabbia per la morte di chi stava vivendo la propria vita come in ogni ordinario venerdì sera parigino, non posso biasimare nessuno. Non posso chiedere il perché non ci si dispiaccia drammaticamente allo stesso modo per le morti di Palestinesi, Libanesi, della gente del Mali e dell'Iraq, o dell'Afghanistan.
Non posso chiederlo perché al corso di antropologia all'università avevo imparato che ogni uomo è, in fondo, etnocentrico e perché è la propria gente quella a cui si dà, in fondo, più valore. Che brutta cosa da dire! Quasi mi fa vergognare. Eppure è proprio così, se ci fate caso. A partire dalle situazioni più quotidiane. Quante volte capita di essere all'estero e sentirsi più vicini ad un connazionale che al resto della gente intorno, così diversa, così sconosciuta?  Quante volte capita di provare, senza desiderarlo  né prevederlo, un po' più di diffidenza  verso uno straniero, magari anche dai colori diversi dai nostri, non per razzismo, no! e neanche per mancanza di - che parola iper-utilizzata! non mi piace proprio - 'tolleranza', ma per paura di sbagliare, paura di non sapere abbastanza?

Le vite dei francesi spezzate nell'agguato di ieri non valgono di più delle vite di chi passeggiava per Beirut il giorno dell'attentato, né valgono di più delle centinaia di migliaia di persone saltate per aria  a Peshawar, a Kabul, a Baghdad o sulla striscia di Gaza. Però queste morti imperdonabili, devastanti e bestiali, queste morti un po' troppo, forse, lontane, sembra che ci tocchino meno. Ci fanno piangere sì, quando ne vediamo le immagini, quando ne andiamo a leggere, quando ne compatiamo il dolore, ma se ci vengono solo elencate come numeri nella cronaca quotidiana, come trafiletti en passant nei telegiornali... è così, lo devo dire, sembra che ci tocchino meno
Parigi invece è qui, è al di là della frontiera. Chi di noi non è mai stato a Parigi o non ha mai fantasticato di andarci? Ci si arriva in treno, a Parigi. I francesi, gli spocchiosi cugini dei casinari italiani, hanno i volti come i nostri, la pelle chiara come la nostra, la loro lingua la studiamo a scuola.
Per questo non mi indigno rabbiosamente se la maggior parte dei miei conoscenti non sprecherebbe un soffio di voce per quello che di più brutale e primitivo accade nel resto del mondo per così dire 'non Occidentale' (ma poi...ad Occidente di chi?) e invece si strugge in spergiuri contro gli infami che hanno mortalmente operato nella capitale francese. Per questo non mi indigno, perché il dolore non ha alcuna bandiera, non parla nessuna lingua parlata, il dolore non si sceglie.
C'è però una cosa che mi indigna rabbiosamente, quella sì: è la non-voglia che c'è di conoscere la  verità, la facilità al conglobamento stereotipato delle colpe, la leggerezza con cui si punta il dito quando si è davanti alla violenza senza la razionalità di tacere e ascoltare, senza l'intelligenza di stare ad aspettare almeno un attimo prima di aizzarsi senza freni contro le paure ignoranti che abbiamo.

La storia pare ripetersi, ahimé, sempre uguale: cambiano le epoche, i mezzi, i luoghi, ma la storia sembra ripetersi sempre, tragicamente, uguale.
Nel XXI secolo non è facile essere musulmani. Sono loro, infatti, a dover pagare per una minoranza disumana creatasi dalla follia drogata che inneggia al terrore: il terrore della libertà, del pensiero, della giustizia, della differenza che rende completi, che rende il mondo un posto affascinante, mai noioso, che ci rende umani anziché esseri robotici. La religione - spero lo sappiate tutti  (è così ovvio che quasi mi sento banale a scriverlo) - è un pretesto. La religione è un pretesto da assassini con una voglia matta di rincorrersi con un'ascia tra le mani; la religione è un pretesto da criminali assetati di grana, di rivalsa, di quella  vendetta che il Dio, quello vero, non affida mai agli uomini; la religione è un pretesto da miserabili che cercano la gloria nell'angolo più raccapricciante del cuore; la religione è un pretesto da spostati con cui la vita probabilmente non è stata magnanima.
Non esiste religione che ordini di farsi saltare per aria nel centro città, né un Dio che sorrida al vedere degli uomini ridotti in brandelli di carne e di ossa.

Mi dispiaccio per quello che vedo, per tante delle opinioni - talvolta ingenue, talvolta irremovibili -  che sento. Mi accorgo che la scelta di isolare il mondo arabo e la gente  che ne fa parte arriva prima dello sforzo  conoscitivo nella maratona dei popoli. La demonizzazione dell'Islam corre più veloce della voglia di scoprire che i gruppi terroristici non sono un velo portato attorno al volto né un tappetino in una moschea, non sono il digiuno del Ramadan, né gli insegnamenti del Quran. I gruppi terroristici non sono una religione ma una gravissima degenerazione umana che trova come giustificazione perfetta lo 'sforzo interpretativo', quella contraddicibile اجتهاد ijtihad che fa leva sull'emarginazione sociale, sulla debolezza psichica, sulla disillusione delle promesse e sulla miseria, soprattutto quella dell'anima.