Friday, November 27, 2015

Cucina albanese: Byrek

Durante le infinite chiacchiere con la mia amica albanese Xhulja si parla spesso di cucina, sarà perché ci vediamo sempre a lezione di ballo prima dell'ora di pranzo! :)
Qualche giorno fa Xhulja mi ha consigliato una ricetta del suo Paese ed io, che non mi lascio sfuggire alcuna occasione per assaggiare qualche sapore nuovo, ho deciso di metterla subito in pratica o meglio... in forno!

Si tratta di una torta salata realizzata con un impasto molto sottile e croccante chiamato yufka, la pasta filo,  fritto o cotto al forno, e riempito con diversi ingredienti. 
Ho letto che il Byrek nasce nel sud dell'Albania -sarà forse qualche lettore albanese a confermarmelo!-  ma è una pietanza diffusa in tutto il Paese.

Il mio primo esperimento di cucina albanese: byrek.
Si është receta? Quale è la ricetta?
Xhulja mi ha proposto la ricetta con gli ingredienti italiani più simili a quelli della tradizione albanese. Ecco il risultato :)

Ingredienti

pasta filo
300 gr di spinaci 
150 gr di ricotta
150 gr di feta / quartirolo  
(mezza cipolla)
due uova
sale e olio d'oliva

Prendere una terrina possibilmente di forma rotonda e ricoprirla con un filo di olio. Appoggiare i diversi strati di pasta filo sul fondo fino a creare lo spessore desiderato. 
Nel frattempo, bollire gli spinaci e strizzarli una volta raffreddati. Unire le due uova alla ricotta, alla feta/quartirolo tagliati a cubetti e ad un pizzico di sale.
Tagliare la cipolla a striscioline sottili ed unirla agli spinaci e al composto.
Versare il composto nella terrina e ricoprire con altri strati di pasta filo. Ricoprire con un filo d'olio.
Infornare a 250° per circa 20-25 minuti.

Të bëftë mirë!! Buon appetito!!



Sunday, November 15, 2015

Ceci n'est pas une religion: modesto pensiero sulla sentenziosità dilagante

Sono solita associare gli avvenimenti del mondo con i miei amici che in quelle parti di mondo vivono.  Lo fate anche voi?
Quando tutta la Grecia fu chiamata a votare nel referendum che la voleva fuori o dentro l'Unione Europea, ho subito immaginato la mia amica Christianna entrare in uno di quei gabbiotti di compensato tipici delle elezioni, afferrare una matita spuntata e crociare il futuro del suo Paese.
Quando in televisione arrivò la tragica notizia del distruttivo terremoto in Nepal, mi immaginai il mio amico Parth nella sua casa di Katmandu tremante nella furia della Terra.
Quando a Mosca fecero scoppiare delle bombe  nella  mastodontica metropolitana alla fermata Lubjan'ka temetti con orrore che il mio amico Denis fosse su quel  vagone quel giorno in quell'esatto momento.
Quando, pochi giorni fa, si parlò dell'attacco kamikaze a Beirut, pensai alla dolcezza infinita del mio amico Hussein quando una sera in cui ero triste mi aveva fatta parlare fino a farmi sentire felice.
Venni  a sapere dell'attentato di Parigi mentre stavo ballando. Io ballavo e qualcuno moriva o era già morto. Feci scorrere la lista dei miei amici parigini nella mente: 2, 5, 7, ... avevo tante persone da associare, tante persone per cui preoccuparmi  questa volta. 

Non si può pensare di addolorarsi sempre per tutti. Purtroppo nel mondo di atrocità  ne accadono ogni giorno e in ogni dove. Per questo motivo, lo ripeto, non si può pensare di addolorarsi sempre per tutti.
In questi giorni quando sento, leggo, vedo così tanto cordoglio e così tanta rabbia per la morte di chi stava vivendo la propria vita come in ogni ordinario venerdì sera parigino, non posso biasimare nessuno. Non posso chiedere il perché non ci si dispiaccia drammaticamente allo stesso modo per le morti di Palestinesi, Libanesi, della gente del Mali e dell'Iraq, o dell'Afghanistan.
Non posso chiederlo perché al corso di antropologia all'università avevo imparato che ogni uomo è, in fondo, etnocentrico e perché è la propria gente quella a cui si dà, in fondo, più valore. Che brutta cosa da dire! Quasi mi fa vergognare. Eppure è proprio così, se ci fate caso. A partire dalle situazioni più quotidiane. Quante volte capita di essere all'estero e sentirsi più vicini ad un connazionale che al resto della gente intorno, così diversa, così sconosciuta?  Quante volte capita di provare, senza desiderarlo  né prevederlo, un po' più di diffidenza  verso uno straniero, magari anche dai colori diversi dai nostri, non per razzismo, no! e neanche per mancanza di - che parola iper-utilizzata! non mi piace proprio - 'tolleranza', ma per paura di sbagliare, paura di non sapere abbastanza?

Le vite dei francesi spezzate nell'agguato di ieri non valgono di più delle vite di chi passeggiava per Beirut il giorno dell'attentato, né valgono di più delle centinaia di migliaia di persone saltate per aria  a Peshawar, a Kabul, a Baghdad o sulla striscia di Gaza. Però queste morti imperdonabili, devastanti e bestiali, queste morti un po' troppo, forse, lontane, sembra che ci tocchino meno. Ci fanno piangere sì, quando ne vediamo le immagini, quando ne andiamo a leggere, quando ne compatiamo il dolore, ma se ci vengono solo elencate come numeri nella cronaca quotidiana, come trafiletti en passant nei telegiornali... è così, lo devo dire, sembra che ci tocchino meno
Parigi invece è qui, è al di là della frontiera. Chi di noi non è mai stato a Parigi o non ha mai fantasticato di andarci? Ci si arriva in treno, a Parigi. I francesi, gli spocchiosi cugini dei casinari italiani, hanno i volti come i nostri, la pelle chiara come la nostra, la loro lingua la studiamo a scuola.
Per questo non mi indigno rabbiosamente se la maggior parte dei miei conoscenti non sprecherebbe un soffio di voce per quello che di più brutale e primitivo accade nel resto del mondo per così dire 'non Occidentale' (ma poi...ad Occidente di chi?) e invece si strugge in spergiuri contro gli infami che hanno mortalmente operato nella capitale francese. Per questo non mi indigno, perché il dolore non ha alcuna bandiera, non parla nessuna lingua parlata, il dolore non si sceglie.
C'è però una cosa che mi indigna rabbiosamente, quella sì: è la non-voglia che c'è di conoscere la  verità, la facilità al conglobamento stereotipato delle colpe, la leggerezza con cui si punta il dito quando si è davanti alla violenza senza la razionalità di tacere e ascoltare, senza l'intelligenza di stare ad aspettare almeno un attimo prima di aizzarsi senza freni contro le paure ignoranti che abbiamo.

La storia pare ripetersi, ahimé, sempre uguale: cambiano le epoche, i mezzi, i luoghi, ma la storia sembra ripetersi sempre, tragicamente, uguale.
Nel XXI secolo non è facile essere musulmani. Sono loro, infatti, a dover pagare per una minoranza disumana creatasi dalla follia drogata che inneggia al terrore: il terrore della libertà, del pensiero, della giustizia, della differenza che rende completi, che rende il mondo un posto affascinante, mai noioso, che ci rende umani anziché esseri robotici. La religione - spero lo sappiate tutti  (è così ovvio che quasi mi sento banale a scriverlo) - è un pretesto. La religione è un pretesto da assassini con una voglia matta di rincorrersi con un'ascia tra le mani; la religione è un pretesto da criminali assetati di grana, di rivalsa, di quella  vendetta che il Dio, quello vero, non affida mai agli uomini; la religione è un pretesto da miserabili che cercano la gloria nell'angolo più raccapricciante del cuore; la religione è un pretesto da spostati con cui la vita probabilmente non è stata magnanima.
Non esiste religione che ordini di farsi saltare per aria nel centro città, né un Dio che sorrida al vedere degli uomini ridotti in brandelli di carne e di ossa.

Mi dispiaccio per quello che vedo, per tante delle opinioni - talvolta ingenue, talvolta irremovibili -  che sento. Mi accorgo che la scelta di isolare il mondo arabo e la gente  che ne fa parte arriva prima dello sforzo  conoscitivo nella maratona dei popoli. La demonizzazione dell'Islam corre più veloce della voglia di scoprire che i gruppi terroristici non sono un velo portato attorno al volto né un tappetino in una moschea, non sono il digiuno del Ramadan, né gli insegnamenti del Quran. I gruppi terroristici non sono una religione ma una gravissima degenerazione umana che trova come giustificazione perfetta lo 'sforzo interpretativo', quella contraddicibile اجتهاد ijtihad che fa leva sull'emarginazione sociale, sulla debolezza psichica, sulla disillusione delle promesse e sulla miseria, soprattutto quella dell'anima.


Thursday, October 29, 2015

Cucina georgiana: Lobio (Лобио по-мегрельски)

Lobio alla mengrelia, piatto del ristorante caucasico Jon Joli, Mosca.

Autunno ormai inoltrato, caldo non fa. Mi viene in mente il mio viaggio a Mosca in un autunno ben più freddo di questo. Un giorno per pranzo la mia amica moscovita Tanya mi portò in un bel ristorante caucasico, il Jon Joli: un luogo accogliente, color ocra, pieno di oggetti del tempo antico che così tanto mi ricordavano quella parte di mondo che non avevo mai visitato.
Trovai i sapori della cucina caucasica ricchi, densi e avvolgenti, più orientali della cucina russa, meno esotici di quella asiatica, esattamente a metà tra quegli universi così differenti eppure mescolati alla perfezione dal tempo e dalla storia. La pietanza che più mi piacque fu il Lobio alla mengrelia (Лобио по-мегрельски). La mengrelia (in georgiano: მეგრული ენა megruli ena)  è una lingua parlata in Georgia da un sottogruppo etnico della regione, i mengreli. Ne ho voluto ricercare e ripotare qui la preparazione.

Ingredienti

400 gr di fagioli rossi secchi
100 gr di cipolla
50 gr di coriandolo fresco
2 spicchi di aglio
coriandolo in polvere, sale,
1 cuc.no di fieno greco
1 cucchiaio di pepe nero
3 foglie di alloro
70 gr di olio

Immergere i fagioli in acqua fredda per due ore prima della cottura. Scolare l'acqua. In una pentola mettere i fagioli, le foglie di alloro, il pepe e aggiungere 1,5 litro di acqua. Cuocere a fuoco medio finché i fagioli non siano teneri.
In un un mortaio e aggiungere anche il coriandolo in polvere e il fieno greco e schiacciare con un pestello. Tagliare a pezzetti il coriandolo fresco e la cipolla e metterli in una padella con un filo d'olio per frigegerli. Scolare i fagioli, conservando parte dell'acqua di cottura, e schiacciarli, aggiungendovi poi il composto ottenuto nel mortaio. 
Mischiare il composto ottenuto con la cipolla fritta e aggiungervi l'acqua di cottura dei fagioli. In una pentola, cuocere per circa 5 minuti a fuoco medio. Servire caldo.

Tuesday, October 27, 2015

Cucina persiana: Koofteh Tabrizi


Una visita serale a EXPO Milano 2015, l'idea di sbirciare il ristorante del padiglione Iran, la voglia di sfidare l'attesa e ottenere due posti a sedere nella sala gremita. Ecco come mi sono trovata a riassaporare quei gusti che già mi avevano stregata durante il mio breve viaggio nel meraviglioso Iran. Ripropongo per voi una ricetta deliziosa.

Ingredienti

1/3 di tazza di riso bianco
1/3 di tazza di piselli gialli
200 gr di macinato di manzo
1 cucchiaio di passata di pomodoro
cipolla
2 uova 
noci, albicocche secche, bacche di berberis
curcuma, pepe, sale, mix di spezie persiane (Advieh)
erba cipollina, menta, dragoncello

Mettere i piselli gialli in pentola, ricoprirli con acqua bollente, cuocerli a fuoco basso per 15 minuti e scolarli. Tagliare a fette mezza cipolla e friggerla in poco olio in una pentola. 
Grattuggiare la cipolla restante. In una scodella mescolare la cipolla grattuggiata, la carne macinata, i piselli gialli, il riso precedentemente bollito, un pizzico di sale e pepe, la curcuma, l'advieh, la maggior parte delle erbe macinate (erba cipollina, menta e dragoncello) e un uovo fresco sbattuto.
Creare una piccola palla concava con il composto ponendovi all'interno i dadidi di albicocche, bacche di berberis, noci e una parte di un uovo sodo. Chiudere la palla.
Riprendere la pentola con la cipola a fette, aggiungerci la curcuma, l'advieh e il pepe e friggere per altri 5 minuti. Aggiungere la passata di pomodoro, la restante parte delle erbe macinate e friggere per altri 5 minuti.
Aggiungere acqua e posizionare nella pentola le polpette. Cuocere 30 minuti da un lato, poi girarle e cuocerle per altri 30 minuti a fuoco basso.



Saturday, September 5, 2015

Chi ha paura di Aylan? - riflessione breve e confusa sull'umanità migrante


Non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare.
(Italo Calvino)

Erano giorni che sentivo parlare di Aylan e della sua foto. "E' una vergogna diffondere un'immagine simile, non c'è rispetto neanche per i morti!" dicevano alcuni, con la voce rotta. "Bisogna che l'Europa veda, nuda e cruda, la sua colpa!" dicevano altri, rabbiosi. Fatto sta, che io la foto di Aylan ancora non l'avevo vista. Allora la sono andata a cercare e, con la tecnologia di cui disponiamo al giorno d'oggi, non è stato poi così arduo trovarla. Mi è balzata davanti agli occhi come un'immagine qualsiasi, tra quei fotogrammi di violenza e terrore che siamo -ahimé- ormai quasi abituati a vederci sbattere in faccia senza fare una piega. Sono rimasta bloccata ma non di spavento, né di pietà. Sono rimasta bloccata, come pervasa da una curiosità sospettosa, gli occhi strizzati, a fissare quella figurina addormentata sull'acqua di un mare ingrigito, il corpicino appoggiato sulla sabbia umida e spenta. Lo fissavo, Aylan, come alla ricerca di un dettaglio di vita, di un guizzo che lo facesse apparire per quello che era: un bambino. 

Mi ci è voluto un po' per comprendere che Aylan era già annegato. Un bambino solo, così piccolo, sommerso dalle onde del mare impietoso. Ho provato ad immaginare la vita di Aylan prima di quella foto: gli abbracci che gli hanno dato, le carezze che ha ricevuto. Chissà se aveva sorriso mai, Aylan, il giorno in cui il barcone su cui viaggiava è affondato, chissà se qualcuno che gli voleva bene gli aveva sussurrato all'orecchio di non avere paura, nenche quando la barca aveva iniziato a scricchiolare, le assi del fondo a cedere, il peso di quell'umanità disperata ad affondare piano negli abissi. Braccia che sbattono, occhi che vedono, fino alla fine, voci che urlano, senza più suono, bocche che cercano aria che manca, aria e acqua, poi acqua, poi aria, poi acqua soltanto e la vita di Aylan che vola rapida verso il cielo.

Cosa voglio dire con il mio scritto? Non lo so. So solo che quando mi sono imbattuta in questo disegno ho pensato che Aylan se lo merita un abbraccio da Gesù. Da Gesù, da Allah, da come lo vogliate chiamare, perché Dio per me è sempre stato uno solo e lo stesso e ditemi quello che volete, tanto idea non la cambio. So solo che di bambini come Aylan ce ne sono tanti, sballottati sul mare dai trafficanti di uomini, e sono pieni di sogni, questi bambini, come quelli che a quest'ora già dormono  nelle nostre case. Davanti a quest'orrore già compiuto c'è tuttavia qualcosa possiamo fare. Possiamo pensare. E dire. E dire senza esitazione alcuna. Dire che davanti ad una foto così, non si può non tornare ad essere umani, non si può non sentirci le mamme di Aylan, i papà di Aylan, i fratelli e le sorelle di Aylan, i nonni di Aylan, gli amici di Aylan, i maestri ai Aylan, non si può non pensare che se solo fossimo stati anche noi su quella barca, se solo avessimo potuto afferrare quel bambino e sollevarlo dal mare, lo avremmo fatto, perché, in fondo, siamo ancora creature, senza nazione, senza Paese, senza passaporto, in fondo, ma proprio in fondo, quando tutti gli strati di convinzione, cultura, educazione, nazionalismo, politica, società, religione e abitudine sono già stati grattati via, quando ogni residuo di gruppo, di idee, di esperienza, di casualità è annullato, quando tutte le croste che abbiamo sul cuore  si sciolgono, in fondo, siamo ancora creature.

Non voglio più sentire le parole di odio che sento  talvolta qui intorno, non voglio vedere più gli sguardi sprezzanti rivolti alla gente di altri colori, non voglio tollerare più la cecità di chi non comprende che è difficile per tutti essere stranieri ed è ben altro che occorre distruggere.  Dobbiamo aver paura dell'odio, dell'insensibilità, del disprezzo, dobbiamo temere chi incita alla separazione, chi esalta la differenza come un ostacolo. 

Non possiamo avere paura di Aylan. Non dobbiamo temere chi ha ancora la speranza di credere che ci sia un mondo migliore al di là del mare.


Thursday, September 3, 2015

Film dal mondo: Water






Il sacro testo hindu di Manu, progenitore dell'umanità, recita così: "La donna virtuosa è colei che dopo la morte del marito rimane casta per sempre e raggiunge il paridiso anche senza figli". Questa sentenza datata più di duemila anni apre il film Water (2005) della regista indo-canadese Deepa Mehta su uno sfondo scuro, nero come l'ostracismo e la misoginia che il film grida a squaciagola, nero e buio di senso come quei sari, al contrario, bianchissimi indossati dalle vedove di Varanasi.

Kalyani e le altre vedove dell'ashram di Madhumati.
Shauntala spalma il balsamo di curcuma sulla testa rasata di Chuya.
E' il 1938 e l'India è ancora occupazione britannica. Quando l'anziano marito della piccola Chuya (Sarala Kariyawasam) muore, la bambina viene svegliata nel cuore della notte: "Chuya, ti ricordi che sei sposata?". No, dice la testolina scossa piena di sonno di Chuya. Eppure sposata lo è davvero e ora che suo marito è morto, Chuya è una vedova, 
destinata a scontare il suo peccato in un ashram per tutta la vita. 
Gli ashram, dal sanscrito srama, 'sforzarsi verso la liberazione', sono monasteri di eremitaggio dove le vedove hindu sono costrette a rinchiudersi, passando una vita spirituale di restrizioni e privazioni e redimendosi così dal peccato di essere sopravvissute al marito. Non più sari colorati, non più profumi né gioielli, non più risate né corse ("che fai? una vedova non può correre come una donna libera!") né dolci ("Da quando le vedove possono mangiare cibo fritto?"). Private della loro bellezza di donne, dei loro lunghi capelli, del puntino rosso tra le sopracciglia, queste creature rasate e bianche e portatrici di sfortune e malaugurio, vivono tutt'oggi in India all'ombra minacciosa dei padroni degli ashram che spesso si tramutano in luoghi di abuso e prostituzione.

Narayan scherza con Chuya in riva al fiume.
Nell'ashram della corrotta Madhumati (Manorama) a cui viene condotta, Chuya conosce la bellissima Kalyani (Lisa Ray) e l'enigmatica Shakuntala (Seema Biswas). Grazie a Chuya, l'amore nato tra Kalyani e il giovane seguace del Mahatma Gandhi, Narayan (John Abraham), tenta di trionfare sulle becere credenze sulle vedove ma è il destino stesso ad essere ancora più amaro, anche con la stessa bambina. Sarà solo grazie a Shakuntala che la benedizione di Gandhi in preghiera a Varanasi cadrà sul futuro di Chuya.

Un film immancabile, meraviglioso, definito da Salman Rushdie come "toccante per il cuore, indimenticabile", disincantato e aspro su uno dei taboo che ancora gettano ombra sull'India di oggi, dove più di 40.000.000 di donne vedove  continuano a subire questo disumano destino.

Kalyani e Narayan in riva al fiume.

Wednesday, September 2, 2015

Cucina colombiana: Arepa con ají, pollo e formaggio

Dopo la visita al Padiglione Colombia a Milano Expo 2015 ho deciso di pranzare al ristorantino colombiano adiacente. Ho assaggiato così per la prima volta una pietanza delle comidas callejeras, dello street food colombiano. La ricetta che ho recuperato è quella delle Arepas, il pane colombiano, farcite con la salsa ají, il pollo e il formaggio.

Salsa ajì, succo tropicale di maracuja e arepa con pollo, formaggio e salsa ajì.
Ingredienti:


per le Arepas:
- 200 gr di farina di mais bianco
- 200 ml di acqua
- 10 gr di burro fuso
- un pizzico di sale
- olio di semi di girasole

per la farcitura:
- carne di pollo (cotta e tagliuzzata a listarelle)
- formaggio fondente (tagliato a listarelle o grattugiato grossolanamente)

per la salsa ají:
- pomodoro
- cipolline
- coriandolo
- peperoncino

Preparazione:

per le Arepas:
Mescolare in una terrina la farina di mais, il sale, il burro fuso e l'acqua intiepidita fino a formare una massa morbida e umida. Creare con l'impasto delle palline di medie dimensioni e lasciarle riposare qualche minuto coperte da un panno umido. 
In una padella, scaldare l'olio di semi di girasole e friggere per alcuni minuti le palline di impasto fino a renderle dorate, appiattendole a piacere, conferendo loro una forma circolare/ovale.

per la salsa ají:
Sminuzzare i pomodori, le cipolline, il coriandolo e il peperoncino e mescolare. Salare e lasciare riposare fino a completo assorbimento dei granelli di sale. Aggiungere un pochino di acqua e mescolare fino ad amalgamare il tutto.

per completare la ricetta:
Tagliare a metà le Arepas dorate e farcirle con il pollo, la salsa ají e il formaggio.









Wednesday, August 26, 2015

Gli occhi irripetibili dell'Afghanistan

Canzone afghana "Shafiq Mureed" di Khanda Ko 

Ogni volta che sento la parola 'Afghanistan' penso a due cose:  agli occhi di terra e di cielo degli Afghani e al sorriso infinito di Ali.

Non sono mai stata in Afghanistan e chissà se mi basterà tutta la vita per andarci mai. Eppure c'è sempre stata in me un'attrazione verso un Paese plurinominato nei telegiornali per le notizie più infelici, una terra ora così malinconica nel mio immaginario di straniera, e un tempo altrettanto rigogliosa. Quello che so sull'Afghanistan l'ho letto sui libri: ho letto storie, dipinto immagini nella mia mente, evocato profumi e sentimenti mai provati ma che nel leggere mi avevano accerchiato così appassionatamente da farmi pensare di averli provati davvero. E' così che questo Paese extra-ordinario è diventato per me quasi un luogo mitico nel pensiero, fatto dei ricordi dei racconti di un amico che ora non c'è più, e delle mie fantasie spropositate ma vivide e reali per chi le ha vissute davvero in quel Paese, quando ancora la guerra non c'era, i Talebani, noi in Italia, non sapevamo quasi chi fossero, e Kabul era il centro di quell'area di mondo appassionato.

Nei secoli, numerosissime popolazioni hanno invaso le terre che oggi costituiscono la Repubblica islamica dell'Afghanistan: Indoariani, Persiani, Greci, Sasanidi, Arabi, Mongoli e infine Britannici e Russi si sono succeduti nel tentativo di domare una fetta di mondo unica e irripetibile, storicamente debole come un giunco piegato dalle tempeste ma culturalmente irremovibile come una roccia che le disumane leggi talebane e le indicibili prepotenze degli invasori hanno cercato invano di trascinare via. L'avvicendarsi di queste genti, dai caratteri somatici ben diversi e così precisamente definiti, hanno dato vita ad un popolo unico per i tratti che lo caratterizzano, per le diversità stridenti dei loro volti al contempo così omogenei ed irrimediabilmente belli. Quei volti-mosaico di mondi diversi, di colori opposti e complementari: la pelle ora chiarissima ora bronzea, i profili ora marcati e grossi, ora affilati e lunghi, il sorriso grande, un po' timido all'inizio ma poi avvolgente e caldo, come lo aveva Ali, e poi quegli occhi, gli occhi che solo gli afghani hanno, incastonati come gemme nei visi profondi, lucidi e brillanti come le stelle che immagino sfavillare sopra i Buddha di Bamyian, occhi pieni di cielo e di terra mescolati insieme in un turbine fatato che, al solo guardarli, incantano per i segreti che raccontano.

Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di volare su delle note musicali che si sono sprigionate dal ristorante afghano presso cui mi trovavo. Una nota, poi l'altra, poi un battito di mani e un brulichio di uomini che sul piazzale hanno incominciato a danzare una danza a me sconosciuta e terribilmente affascinante nella sua semplicità incalzante, quasi estatica.
"Questa danza si chiama Attan", mi ha spiegato il proprietario del ristorante, i suoi occhi di terra e di cielo illuminati di curiosità verso chi vuole conoscere qualcosa che non sa, "tutti ballano questa danza in Afghanistan, ci sono dei movimenti precisi da imparare". Avrei voluto chiedere di più e lui avrebbe voluto dirmi ben altro del suo Paese lontano, forse avrebbe voluto descrivermi uno dei mille soli che illuminano la storia dell'Afghanistan o forse avrebbe solo voluto non aver finito tutti gli ingredienti nel suo piccolo ristorante per potermi far assaggiare un gusto del suo Paese. Ma quegli occhi di cielo e terra già sfuggivano via, persi in chissà quali pensieri, in quella reverenza raggiante e rapita che non abbandona mai il volto degli Afghani. 

Guardavo quegli uomini danzare in cerchio, come incantati dalle note della musica. Si tenevano per mano, poi si svincolavano in un balzo, in un battito di mani all'unisono, ruotando nella brezza leggerissima della tarda sera i loro abiti lunghi, sollevanone i lembi talvolta, girando su se stessi, avvicinandosi ed allontanandosi dal centro del loro unisono. Dimentichi di ogni cosa intorno a loro, danzavano, e mi parve di volare anche io insieme a loro verso una terra che non ho mai visto ma che già mi pare di amare. Sulla porta, un vecchio signore afghano finiva di mangiare il suo riso e di bere un bicchiere di Sharbat-E-Bomya, dal sapore di limone e di acqua di rose. Mentre lo guardavo mi disse qualcosa che non potevo capire e mi sorrise, abbassando un poco la testa amabilmente, insieme ai suoi occhi di terra e di cielo. Ho letto da qualche parte che quando ad un Afghano si fa un complimento su quello che si è visto nel suo Paese, egli risponderà: "Sono i tuoi occhi ad essere belli!". La bellezza di chi vede il bello dove c'è e dove si fa più fatica a vedere. Mi domando se sono quegli occhi che gli afghani hanno, a metà tra il cielo e la terra, ed essere il filtro della loro gioia nascosta, della musica della loro lingua che diventa poesia nelle canzoni che per fortuna non sono più proibite. 
Il mio amico Ali, con l'abito tradizionale afghano. Lui che per primo mi raccontò dell'Afghanistan e mi fece innamorare dell'immaginazione della sua Terra, parlandomene appassionatamente, danzando scatenato e guardandoci tutti con i suoi occhi di terra e cielo.


Tuesday, July 21, 2015

Iran: Le porte di Abianeh

Abianeh, Iran.
Arrivammo ad Abianeh con una pioggia fredda e sottile. Il villaggio pareva quasi irreale nel suo silenzio umido, nel rumore ovattato delle gocce del cielo, del fango delle strade di terra battuta e piastrellata. Abianeh sembra crearsi d'improvviso, tra i monti del distretto di Bazrud, con la stessa sveltezza con cui delle mani esperte di un vasaio danno forma alla creta che gira sul tornio. Era novembre ma faceva caldo in città, eppure l'aria pungente che ci accolse nel villaggio faceva già pensare all'inverno. Le finestre delle case erano serrate, le porte chiuse, solo gli intarsi minuziosi dell'architettura tradizionale facevano immaginare degli occhi tra quelle fessure, dei volti sfuggenti e delle figure inafferrabili dietro a quei muri di fango e mattoni. 
Dettaglio di abitazione, Abianeh, Iran.

D'improvviso uno schioccare di zoccoli, uno strusciare di pezze, uno stampare di piedi sui ciottoli umidi: una donna ricoperta di un velo largo e coprente di colore bianco, puntellato di mille colori, camminava piano sulla stradina arrampicata sul monte, tirandosi dietro un asinello grigio, piccino, caricato di borse e di stoffe. Quelle furono le prime delle quattro creature che intravidi, quasi come una visione subitanea e lenta, ad Abianeh. Le altre due furono due vecchie signore vestite di nero, le loro gonne ampie e scure rigonfie su gradini di pietra su cui sedevano, la loro pelle aranciata dal sole, i loro occhi olivastri  e grandi, le loro voci stridenti e roche come quelle di chi parla poco, o forse mai.

Donna e asinello, Abianeh, Iran.

Porta con due battenti, Abianeh, Iran.
Mi apparve così Abianeh, in quel pomeriggio d'autunno, raccolta e laconica come le ragazze che hanno appena pianto, come quei sentimenti che rischiano di perdersi se non si fa qualcosa. Le porte ad Abianeh sono di legno, lucide e pesanti, quasi nascondano dietro di sé un segreto ingombrante e antico. Mi piacque il desiderio di oltrepassare una di quelle porte e scoprire la vita all'interno delle case color ocra, brillanti e scivolose della pioggerella delicata e rapida in cui ci eravamo imbattuti. Le porte di Abianeh hanno due battenti: uno è per le donne, uno per gli uomini. La loro diversa forma produce un suono peculiare che distingue il genere del visitatore sconosciuto all'orecchio attento del padrone di casa. Forse che bussando qualcuno avrebbe... Ma no, Abianeh mi piaceva così, ermetica e scorbutica come la vidi, circondata da montagne impervie e alberate di alberi rossi e marroni, incastonata in un fianco di montagna, schiva e scontrosa, eppure così innocente e bisognosa di amore, come tutte le persone imbronciate che si dicono felici anche senza nessuno.


 





Tuesday, February 10, 2015

Il tango della nostalgia, la musica degli Italiani d'Argentina

Dipinto di Willem Haenraets, Bandoneón
E' possibile, secondo voi, ereditare dai propri genitori anche la memoria del passato? Si ereditano la forma del viso, il colore degli occhi, l'unicità di certi gesti, i gusti del cibo, le abitudini quotidiane. Ma la memoria?

Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo tantissimi furono gli Italiani che presero una grande nave diretta in Argentina. Uomini, giovani, adulti, tutti in cerca di fortuna, di terra, di sicurezza nel continente delle opportunità che qui da noi chiamavano 'Merica. Questi italiani coraggiosi, spaventati, ingenui e determinati dovettero per la prima volta ricostruire se stessi e il loro Paese, individuandone le peculiarità, rivivendone le tradizioni, riordinando quel groviglio di ricordi infantili ed emozioni adulte davanti a un Nuovo Mondo lontanissimo e capovolto in cui l'unico conforto erano le note vibrate, ora rapide, ora lente, e le parole scompigliate del tango, mescolate, che ad ogni sillaba combattevano contro quell'olvido tanto temuto, contro la paura di dimenticare.

Finivano alla sera i lavoranti italiani delle piantagioni, col cuore pieno d'amore per la terra lontana, per le persone lasciate; e di attesa per il giorno in cui avrebbero camminato di nuovo su quel suolo, rivisto quei volti che in loro confidavano e che li aspettavano ogni giorno e ogni notte, pazienti, forse alzando lo sguardo verso la luna, che è la stessa per tutti, o protendendo il busto verso quell'oceano immenso...
Finivano alla sera i lavoranti delle piantagioni e allora c'era chi aveva con sé una fisarmonica e, perché no, anche un bandoneón. Solo così poteva iniziare un concertino improvvisato, con quella stanchezza malinconica e quella speranza trepidante che sbocciarono nel tango, oggi sinonimo di passione e sensualità, ma che nacque da una lacrima, dalla paura di dimenticare, dalla voglia di ricordare le figure, gli odori, i suoni della bella Italia.

Tango italiano, tango argentino, tango che suona come casa, che parla in spagnolo Rio-platense, talvolta mescolato ad una frase in uno dei tanti dialetti del Bel Paese; tango che accarezza il viso, che accompagna confortante nei sogni, che lascia immaginare la struggente vita migrante degli Italiani coraggiosi partiti su una nave con un baule carico di sogni.

"Cuando escucho 'O Sole mio' / Senza mamma e senza amore / siento un frío acá en el cuore". Cantano così le parole di Canzoneta, immaginando il calore del sole, della mamma, di quell'amore italiano che tanto mancava, che tanto avrebbe fatto sentire di essere a casa. E proprio Napoli è invocata anche da Canción de Inmigrante, con le sue acque azzurre, il suo golfo punteggiato da imbarcazioni: "Sol de Napoles / lontano / mare azzurro / mi puerto". Napoli, profumo d'Italia. Italia, luogo dell'anima, indimenticabile, dove ogni angolo, ogni dettaglio diventa un legame indissolubile di emozioni antiche come dentro alla "casita de [los] viejos [donde] cada cosa es un recuerdo  que se agita en [la] memoria".

Il tango si fa pittore e dipinge nelle sue strofe nostalgiche figure di immigranti italiani, spesso avvolti dai luoghi del ricordo, come el italiano che "toca piano, piano, su acordeón" nella "Cantina" che diventa donna e che piange la malinconia della vita lontana da casa. O come l'emigrante in quel viejo Cafetìn dove "siempre rondan los recuerdos y un compás de tango de antes va a poner color al dolor". Sì, il dolore si colora nella musica, nella ripetitiva convinzione di restare italiani per sempre e di tornare un giorno, non troppo lontano, al Paese. L'Italia si mistifica, si sfoca, evapora nei ricordi fino a diventare un'immagine sognata, così intangibile da far temere che forse la si è solo immaginata...


Dipinto di Willem Haenraets, Tango Argentino II
Il tango divenne così la musica degli emigranti, il lamento della loro impotenza di fronte alla solitudine e al disorientamento culturale, il tentativo danzante di fare ordine tra le loro frammentate esistenze. L'allegra milonga dei gauchos argentini venne alterata dalla creatività ombrosa dei musicisti italiani fino a divenire il suono del cuore infranto, il ritmo del desiderio fortissimamente e incessantemente trattenuto. Il tango restò a lungo un genere disgraziato, relegato nelle più famigerate bettole di Buenos Aires e solo con la crescente ricerca di un peculiare nazionalismo argentino negli anni Trenta il tango diventò insuperata caratteristica simbolica dell'Argentina fino ai giorni nostri.

Italiani e Argentini, Italiani d'Argentina: le identità compromesse in un'unica musica, quella del tango; le identità con-promesse, promesse l'una all'altra nella completa revisione e nel conseguente ri-adattamento di entrambe. La nuova Argentina che inventò se stessa coabitando con gli Italiani. Gli italiani che ricostruirono la loro casa armoniosamente, naturalmente, senza strappi, senza più lacrime, in un Paese che alla fine li trattenne come figli propri e ancora oggi li trattiene là, in ogni bambino che nasce con un cognome italiano, in ogni doppio passaporto erogato, in ogni giovane che sogna il piccolo Paese dalla forma di uno stivale dove nacquero i bisnonni, ad ogni passo ovattato e vibrante di tango, ad ogni pesante baule da viaggio che emerge dai cimeli di famiglia, ad ogni voce che dice "Questo lo usò il bisnonno quando partì per l'Argentina...".

Sunday, January 25, 2015

Il tempio degli spiriti del mare: Pura Luhur Ulu Watu

La foto che amo. Particolare del tempio di Pura Luhur Ulu Watu, Bali, Indonesia.
Vi siete mai innamorati di una fotografia? Di una foto che, forse, per gli altri, non è così straordinaria: leggermente sfocata, rilucente dai riflessi del sole, forse non è nemmeno centrata, uno scatto grossolano di chi fotografo non è. Eppure, per voi, proprio in quella foto è racchiuso un universo di profumi e sensazioni che ancora penetrano dalle narici e si infrangono forte sulla pelle, di rumori altisonanti e ripetuti che non sono mai stati dimenticati. La foto del mio cuore è una scogliera rientrante di rocce e cespugli marini, una forma inconfondibile di tempio indù, appuntita e arrotondata, stagliata contro il cielo azzurro e grigio che si tuffa in un mare ondoso ma calmo e dello stesso colore, sul far della sera. 

Scalinata al tempio di Pura Luhur Ulu Watu, Bali, Indonesia.
La foto del mio cuore è il tempio Pura Luhur Ulu Watu costruito nell' XXI secolo sulla costa dell'isola indonesiana di Bali. La penisola di Bukit ospita questo tempio appeso su una alta scogliera scura e custodito da decine e decine di scimmie che saltellano, si arrampicano tra le statue di pietra dai volti ora umani ora animali. I loro occhi neri, vividi e acquosi scrutano il visitatore ammaliato, le loro braccina sottili sono sempre pronte ad arraffare un oggetto sconosciuto e interessante: un paio di occhiali da sole, una sciarpetta,... per precipitarsi poi di nuovo, inafferrabili, tra i meandri nascosti del tempio dove solo loro sanno arrivare. E al visitatore ammaliato non resta altro che camminare, arrampicandosi un po' sul dorso della natura sempiterna di Pura Luhur Ulu Watu, seguendone le possenti mura fortificate e i sentieri magici racchiusi in una galleria di rami e di foglie. 

Un uomo e una donna pregano al tempio di Pura Luhur Ulu Watu, Bali, Indonesia.
Attraversando i giardini selvaggi del tempio si scorgono di tanto in tanto delle sagome lente, inginocchiate, le braccia sollevate, le mani giunte davanti alla fronte. Poggiano a terra un cestino ricolmo di riso e di fiori profumati e bellissimi, il loro dono agli dei per dire grazie della fortuna che hanno, per la ricchezza inestimabile della loro vita, qualunque essa sia. I loro profili si stagliano contro la luce incorporea che si spande in fascette arcobaleno, come i riverberi dell'iride abbacinata dal sole negli occhi degli dei. 

E' qui, dentro questi raggi sfumati, che il potere mistico di Brahma, Vishnu, e Shiva pervade le gradinate scoscese, gli arbusti della foresta, gli intagli di pietra dura che resistono al vento oceanico da centinaia di anni, irremovibili, fieri. Gli elementi della natura si completano con l'uomo a Pura Luhur Ulu Watu, si manifestano a pieno, invadenti, nel fragore schiumoso del mare, nello sfregare frusciante degli alberi, nello sfregarsi della terra sotto i sandali, nella frescura durissima della pietra sotto i piedi nudi.

Coro di uomini e danzatori keciak al tempio di Pura Luhur Ulu Watu, Bali, Indonesia.
La scogliera del tempio diventa così un rifugio per gli spiriti buoni della natura, contro le insidie dei flutti che celano invece gli spiriti del mare, demonietti scaltri e perfidi orchi che talvolta emergono dall'oceano e si infilano negli angoli bui della vita, pronti a confondere le strade, a sballottare i pensieri, come fa il vento che tira, sul far del tramonto, sulla cima dei picchi di Pura Luhur Ulu Watu. Il sole declina pian piano e il cielo diventa più bianco, celeste. Un gruppo folto di uomini in sarong neri si siede in cerchio sul palco di pietra e inizia il suo canto stridente, costante, incalzante. Non una voce manca, non un suono si assenta da quella melodia tormentata che narra le leggende più antiche che vivono ancora, ogni giorno, davanti all'oceano, sulla scogliera di Pura Luhur Ulu Watu. Due danzatori di danza keciak dagli abiti preziosi e dai copricapi dorati si muovono simmetrici, i loro gesti controllati e spigolosi seguono i ritmi del coro: ciak ciak ciak, cantano, ciak ciak ciak, danzano ipnotiche le storie epiche di Ramayana

Dopo lo spettacolo, fine del tramonto al tempio di Pula Luhur Ulu Watu, Bali, Indonesia.
Quando lo spettacolo termina, il silenzio colpisce improvviso l'udito, i gorgoglii e gli stridori si bloccano, evaporano via come i personaggi delle storie narrate, pronte a rivivere all'indomani. Gli spiriti cattivi del mare sono domati, la luce va a spegnersi, riposano le scimmiette custodi, sorridono Brahma, Vishnu e Shiva, dopo il loro banchetto. Il vento si alza, fa ondeggiare le fronde, fa frusciare le foglie, ma è caldo del sole diurno e non agita più i pensieri, ma culla le ondine del mare che diventa un letto di schiuma e riflessi. Le nuvole larghe di Bali ricoprono lo sfondo rosato al tempio di Pura Luhur Ulu Watu, l'anfiteatro si svuota di uomini e si riempie di cielo.






Monday, January 5, 2015

Shirin e Farhad, leggenda di un amore nell'antico Iran

"Questa storia è vera e antica, ha più di millequattrocento anni..." incominciò a raccontarmi la mia amica Yasamin, una sera di quelle in cui non puoi dormire bene, una sera di quelle in cui c'è proprio bisogno di una storia.
Pochi minuti prima, stavo ascoltando una canzone del cantante iraniano Mohammad Reza Shokri dal titolo "Shirin o Farhad". Ogni volta che sento quei due nomi mi tornano alla mente tante immagini inaspettate e sorprendenti, tutte le emozioni insperate ed eterne di un mio breve viaggio in Iran. 
La storia di Shirin e Farhad è una di quelle storie che restano all'infinito, che si raccontano e ri-raccontano nella speranza che, in ogni epoca a venire, Shirin e Farhad non subiscano più ingiustizia e soprusi ma che gli amori come il loro ricompaiano sempre, ad ogni generazione.

"Questa storia è vera e antica, ha più di millequattrocento anni..." mi scrisse, allora, Yasamin, la potevo immaginare, con i suoi occhi scuri grandi, che si riempiono di entusiasmo quando mi racconta del suo Paese, dell'Iran, e delle sue storie meravigliose.
Nel VII secolo d. C., prima che gli Arabi arrivassero e portassero con sé l'Islam, viveva in Iran una ragazza giovane e bellissima di nome Shirin. La famiglia di Shirin era molto ricca e conosciuta e l'intero Paese cantava la bellezza unica e la grazia impareggiabile della giovane. 

La gente parlava di lei e la sua fama raggiunse le orecchie del sovrano, re Khosro Parviz, il Vittorioso, ultimo discendente della dinastia dei Sassanidi. Re Khosro Parviz volle chiamare a sé Shirin e suo padre e, rimasto abbagliato dall'indicibile bellezza della ragazza, la chiese in sposa, pur avendo già una moglie, Maria, principessa bizantina, figlia dell'Imperatore Maurizio Tiberio. 
Tuttavia Khosro Parviz non volle rinunciare alla bella Shirin e decise, quindi, di celebrare in segreto il matrimonio. Strappò la sfortunata prescelta dall'amore della sua famiglia e la tenne prigioniera nelle segrete di un castello lontano fino al giorno stabilito per la cerimonia. Nella sua prigionia, l'infelice Shirin si sentì sola e triste, separata per sempre dalla sua famiglia, rinchiusa nel buio e nel segreto più vergognoso di un matrimonio fuorilegge e senza amore.

Un giorno, re Khosro Parviz ordinò che nel castello segreto fossero costruite delle statue per renderlo più grandioso e degno di un sovrano Vittorioso. Un giovane scultore di nome Farhad fu subito inviato al palazzo segreto e incominciò a scolpire su una lunga rampa di scale che portava alla torre dove Shirin stava rinchiusa. Udendo un canto tristissimo di donna e delle lacrime di pianto e dolore provenienti dalle scalinate della torre, Farhad vi salì in cima e si accorse che una ragazza meravigliosa era prigioniera e sola in una grande stanza triste. Farhad si innamorò di Shirin, della sua voce, del suo volto, del suo cuore prezioso che aveva bisogno di essere custodito e salvato. 
Rivelatosi alla giovane, Farhad si recò da lei ogni giorno e anche Shirin si innamorò perdutamente di lui.
Scolpì lentamente, Farhad, ogni giorno, le statue per il re e infine il lavoro fu inevitabilmente ultimato. Arrivato il giorno della sua partenza dal castello, Farhad non si perse d'animo e osò sfidare re Khosro Parviz per ottenere la libertà di Shirin. 
Ma il sovrano, adirato per l'affronto subito e impassibile alle richieste dei due innamorati, negò la libertà della principessa. 
La ragazza, addolorata, si ammalò, indebolendosi ogni giorno di più finché il re, spaventato dalla sua fragile condizione, seguendo i consigli di una vecchia spaventosa strega, concesse una remota e pericolosa possibilità al giovane innamorato. "Se in quaranta giorni riuscirai a scavare l'intera montagna di Bistoon con le tue mani, Shirin sarà libera", proferì.

Farhad partì immediatamente per la città di Kerman, nei pressi della quale si trovava la montagna della sua prova di coraggio e resistenza. Shirin lo attese ogni giorno con grande speranza e timore, ma confidando nel loro amore e nella riuscita dell'ardua impresa. Dal quarantesimo giorno dalla partenza di Farhad la vecchia strega si avvicinò alla principessa e le annunciò beffarda: "Il tuo amato Farhad ha fallito la sua missione, se n'è andato! ti ha abbandonata!". La ragazza non riusciva a credere alle parole della strega ma Farhad non tornava e Shirin pianse tutte le sue lacrime del suo cuore.

La strega, abbandonata Shirin al suo dolore, si recò subito a Kerman con un losco e menzognero intento: annunciare pubblicamente la morte della principessa Shirin. La popolazione intera pianse la morte improvvisa della bella Shirin, ignara del terribile inganno inscenato dalla malvagia strega. 
Ma anche Farhad, stremato dalla fatica di aver compiuto l'impossibile impresa in quaranta giorni e quaranta notti, infine giunse in città e  la tragica notizia sul destino crudele della sua amata giunse subito a lui. Accecato dalla disperazione e dalla sofferenza, Farhad incontrò la morte proprio su quella montagna da lui con così tanta fatica scavata per salvare la bella Shirin. 

Dalla torre nel castello segreto di Khosro Parviz, Shirin udì il subbuglio inquieto proveniente dalla città e venne così a sapere della morte, ahimè reale, del suo eroe Farhad. Solo allora la principessa comprese l'inganno inscenato dalla malefica strega ed appoggiato dallo stesso sovrano e, con le ultime forze rimastele, si gettò anch'ella nelle braccia cupide della morte, aspirando al Paradiso tanto desiderato per rincontrare là il suo Farhad e restare per sempre insieme, liberi dalle prigioni in cui la vita li aveva rinchiusi.