Saturday, September 5, 2015

Chi ha paura di Aylan? - riflessione breve e confusa sull'umanità migrante


Non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare.
(Italo Calvino)

Erano giorni che sentivo parlare di Aylan e della sua foto. "E' una vergogna diffondere un'immagine simile, non c'è rispetto neanche per i morti!" dicevano alcuni, con la voce rotta. "Bisogna che l'Europa veda, nuda e cruda, la sua colpa!" dicevano altri, rabbiosi. Fatto sta, che io la foto di Aylan ancora non l'avevo vista. Allora la sono andata a cercare e, con la tecnologia di cui disponiamo al giorno d'oggi, non è stato poi così arduo trovarla. Mi è balzata davanti agli occhi come un'immagine qualsiasi, tra quei fotogrammi di violenza e terrore che siamo -ahimé- ormai quasi abituati a vederci sbattere in faccia senza fare una piega. Sono rimasta bloccata ma non di spavento, né di pietà. Sono rimasta bloccata, come pervasa da una curiosità sospettosa, gli occhi strizzati, a fissare quella figurina addormentata sull'acqua di un mare ingrigito, il corpicino appoggiato sulla sabbia umida e spenta. Lo fissavo, Aylan, come alla ricerca di un dettaglio di vita, di un guizzo che lo facesse apparire per quello che era: un bambino. 

Mi ci è voluto un po' per comprendere che Aylan era già annegato. Un bambino solo, così piccolo, sommerso dalle onde del mare impietoso. Ho provato ad immaginare la vita di Aylan prima di quella foto: gli abbracci che gli hanno dato, le carezze che ha ricevuto. Chissà se aveva sorriso mai, Aylan, il giorno in cui il barcone su cui viaggiava è affondato, chissà se qualcuno che gli voleva bene gli aveva sussurrato all'orecchio di non avere paura, nenche quando la barca aveva iniziato a scricchiolare, le assi del fondo a cedere, il peso di quell'umanità disperata ad affondare piano negli abissi. Braccia che sbattono, occhi che vedono, fino alla fine, voci che urlano, senza più suono, bocche che cercano aria che manca, aria e acqua, poi acqua, poi aria, poi acqua soltanto e la vita di Aylan che vola rapida verso il cielo.

Cosa voglio dire con il mio scritto? Non lo so. So solo che quando mi sono imbattuta in questo disegno ho pensato che Aylan se lo merita un abbraccio da Gesù. Da Gesù, da Allah, da come lo vogliate chiamare, perché Dio per me è sempre stato uno solo e lo stesso e ditemi quello che volete, tanto idea non la cambio. So solo che di bambini come Aylan ce ne sono tanti, sballottati sul mare dai trafficanti di uomini, e sono pieni di sogni, questi bambini, come quelli che a quest'ora già dormono  nelle nostre case. Davanti a quest'orrore già compiuto c'è tuttavia qualcosa possiamo fare. Possiamo pensare. E dire. E dire senza esitazione alcuna. Dire che davanti ad una foto così, non si può non tornare ad essere umani, non si può non sentirci le mamme di Aylan, i papà di Aylan, i fratelli e le sorelle di Aylan, i nonni di Aylan, gli amici di Aylan, i maestri ai Aylan, non si può non pensare che se solo fossimo stati anche noi su quella barca, se solo avessimo potuto afferrare quel bambino e sollevarlo dal mare, lo avremmo fatto, perché, in fondo, siamo ancora creature, senza nazione, senza Paese, senza passaporto, in fondo, ma proprio in fondo, quando tutti gli strati di convinzione, cultura, educazione, nazionalismo, politica, società, religione e abitudine sono già stati grattati via, quando ogni residuo di gruppo, di idee, di esperienza, di casualità è annullato, quando tutte le croste che abbiamo sul cuore  si sciolgono, in fondo, siamo ancora creature.

Non voglio più sentire le parole di odio che sento  talvolta qui intorno, non voglio vedere più gli sguardi sprezzanti rivolti alla gente di altri colori, non voglio tollerare più la cecità di chi non comprende che è difficile per tutti essere stranieri ed è ben altro che occorre distruggere.  Dobbiamo aver paura dell'odio, dell'insensibilità, del disprezzo, dobbiamo temere chi incita alla separazione, chi esalta la differenza come un ostacolo. 

Non possiamo avere paura di Aylan. Non dobbiamo temere chi ha ancora la speranza di credere che ci sia un mondo migliore al di là del mare.


Thursday, September 3, 2015

Film dal mondo: Water






Il sacro testo hindu di Manu, progenitore dell'umanità, recita così: "La donna virtuosa è colei che dopo la morte del marito rimane casta per sempre e raggiunge il paridiso anche senza figli". Questa sentenza datata più di duemila anni apre il film Water (2005) della regista indo-canadese Deepa Mehta su uno sfondo scuro, nero come l'ostracismo e la misoginia che il film grida a squaciagola, nero e buio di senso come quei sari, al contrario, bianchissimi indossati dalle vedove di Varanasi.

Kalyani e le altre vedove dell'ashram di Madhumati.
Shauntala spalma il balsamo di curcuma sulla testa rasata di Chuya.
E' il 1938 e l'India è ancora occupazione britannica. Quando l'anziano marito della piccola Chuya (Sarala Kariyawasam) muore, la bambina viene svegliata nel cuore della notte: "Chuya, ti ricordi che sei sposata?". No, dice la testolina scossa piena di sonno di Chuya. Eppure sposata lo è davvero e ora che suo marito è morto, Chuya è una vedova, 
destinata a scontare il suo peccato in un ashram per tutta la vita. 
Gli ashram, dal sanscrito srama, 'sforzarsi verso la liberazione', sono monasteri di eremitaggio dove le vedove hindu sono costrette a rinchiudersi, passando una vita spirituale di restrizioni e privazioni e redimendosi così dal peccato di essere sopravvissute al marito. Non più sari colorati, non più profumi né gioielli, non più risate né corse ("che fai? una vedova non può correre come una donna libera!") né dolci ("Da quando le vedove possono mangiare cibo fritto?"). Private della loro bellezza di donne, dei loro lunghi capelli, del puntino rosso tra le sopracciglia, queste creature rasate e bianche e portatrici di sfortune e malaugurio, vivono tutt'oggi in India all'ombra minacciosa dei padroni degli ashram che spesso si tramutano in luoghi di abuso e prostituzione.

Narayan scherza con Chuya in riva al fiume.
Nell'ashram della corrotta Madhumati (Manorama) a cui viene condotta, Chuya conosce la bellissima Kalyani (Lisa Ray) e l'enigmatica Shakuntala (Seema Biswas). Grazie a Chuya, l'amore nato tra Kalyani e il giovane seguace del Mahatma Gandhi, Narayan (John Abraham), tenta di trionfare sulle becere credenze sulle vedove ma è il destino stesso ad essere ancora più amaro, anche con la stessa bambina. Sarà solo grazie a Shakuntala che la benedizione di Gandhi in preghiera a Varanasi cadrà sul futuro di Chuya.

Un film immancabile, meraviglioso, definito da Salman Rushdie come "toccante per il cuore, indimenticabile", disincantato e aspro su uno dei taboo che ancora gettano ombra sull'India di oggi, dove più di 40.000.000 di donne vedove  continuano a subire questo disumano destino.

Kalyani e Narayan in riva al fiume.

Wednesday, September 2, 2015

Cucina colombiana: Arepa con ají, pollo e formaggio

Dopo la visita al Padiglione Colombia a Milano Expo 2015 ho deciso di pranzare al ristorantino colombiano adiacente. Ho assaggiato così per la prima volta una pietanza delle comidas callejeras, dello street food colombiano. La ricetta che ho recuperato è quella delle Arepas, il pane colombiano, farcite con la salsa ají, il pollo e il formaggio.

Salsa ajì, succo tropicale di maracuja e arepa con pollo, formaggio e salsa ajì.
Ingredienti:


per le Arepas:
- 200 gr di farina di mais bianco
- 200 ml di acqua
- 10 gr di burro fuso
- un pizzico di sale
- olio di semi di girasole

per la farcitura:
- carne di pollo (cotta e tagliuzzata a listarelle)
- formaggio fondente (tagliato a listarelle o grattugiato grossolanamente)

per la salsa ají:
- pomodoro
- cipolline
- coriandolo
- peperoncino

Preparazione:

per le Arepas:
Mescolare in una terrina la farina di mais, il sale, il burro fuso e l'acqua intiepidita fino a formare una massa morbida e umida. Creare con l'impasto delle palline di medie dimensioni e lasciarle riposare qualche minuto coperte da un panno umido. 
In una padella, scaldare l'olio di semi di girasole e friggere per alcuni minuti le palline di impasto fino a renderle dorate, appiattendole a piacere, conferendo loro una forma circolare/ovale.

per la salsa ají:
Sminuzzare i pomodori, le cipolline, il coriandolo e il peperoncino e mescolare. Salare e lasciare riposare fino a completo assorbimento dei granelli di sale. Aggiungere un pochino di acqua e mescolare fino ad amalgamare il tutto.

per completare la ricetta:
Tagliare a metà le Arepas dorate e farcirle con il pollo, la salsa ají e il formaggio.