Saturday, December 27, 2014

Cipro: Agros che profuma di rose

Soleggiata veduta mattutina dalla mia camera dell'albergo Vlachos ad Agros, Cipro.
Era già buio quando arrivammo ad Agros (Αγρός), Pilar e Gianni ed io. Ma quando aprii gli occhi, al mattino dopo, la coltre di buio pungente che copriva le sagome e lasciava mille domande sul luogo in cui eravamo capitati, evaporò in fretta, prestissimo, e un sole di Novembre, stupendo, caldo e chiaro riempì le montagne, le vie. Entrava dalle fessure lasciate scoperte dalle ampie tende dell'hotel Vlachos, mi attraeva inevitabilmente a spalancare le finestre, a uscire sul balcone dirimpetto alle cime, agli alberi verdi e castani di autunno, alle balconate di fiori dove qualcuno già gridava "γιεα σου", ciao, con quella musica di voce antica che ha la gente ad Agros, come fosse sempre festa.
Frutta dal giardino del signor Panagiotis, Agros, Cipro.



La vita ad Agros profuma della frutta del giardino del signor Panagiotis, che lui stesso ci mostrò con orgoglio. Melograni, uva, fichi, cachi, mele, ... che la sua dolcissima moglie Maria non mancava mai di preparare per noi, ordinatamente, a cubetti o fettine, ad ogni pasto. Un orto dei sapori, quello del signor Panagiotis, dove trovare di tutto, con la sensazione magica che se avessimo chiesto qualcosa, il nostro desiderio sarebbe cresciuto in quell'orto, tra le erbe alte, trai cespugli secchi di autunno, sotto il pergolato dell'uva. 


Fonte dell'acqua di Agros, Cipro. Chi ne beve l'acqua, 
dice la leggenda, si innamorerà e sposerà ad Agros.
Agros si trova sulle montagne  Troodos, a circa 1100 metri di altitudine e, nel pomeriggio, decidemmo di incamminarci per le stradine del paese che si susseguivano, inerpicandosi tra un cancello e l'altro, un grande cespuglio di fiori e un giardino di alberi e piante.  Scorsi spesso una figura semi-nascosta tra le fronde: un uomo dai capelli grigi intento a zappare il terreno o una vecchia signora che lavorava seduta sull'uscio di casa. Li salutai sempre, con le poche parole conosciute, e loro non mi fecero mai mancare un saluto curioso, un sorridente cenno del capo. Chissà se anche loro si erano sposati qui, ad Agros, bevendo l'acqua della fonte magica che fa innamorare?

Soutzoukos, foto di www.cyprusbreakfast.eu.

La vita ad Agros profuma di Soutzoukos, il dolce di uva Xynisteri che si produce in varie località dell'isola. Il mosto, aromatizzato alla rosa, alla vaniglia e al geranio, è colato attorno a un cuore di noce o mandorla e la stringa dolce viene lasciata asciugare per sei giorni prima di essere tagliata a fettine spesse e servita



Ma, infine, nel 1917 al maestro Nearchos Clerides, assegnato al villaggio di Agros, balenò in mente l'idea di incominciare una coltivazione intensiva di rose damascene, con trenta petali, che furono importate sull'isola dalla Mesopotamia, col sogno di poter produrre un giorno dell'acqua di rose. Uno dei ragazzini che studiarono con il maestro Clerides si chiamava Nicodemos Tsolakis e amò fin dal principio la bizzarra idea del suo insegnante. Nel 1948 quel bambino che amava le rose, diventato uomo, acquistò la produzione e la fece propria, succeduto poi dal figlio, Chris Tsolakis, che ci presentò con orgoglio la sua coltivazione.  Ogni anno, in maggio, centinaia di rose vengono colte rapidamente, prima che il calore del sole ne faccia evaporare l'essenza. E' per questo che la vita, ad Agros, profuma sempre di rose.


 link al sito web della produzione Tsolakis

Candele profumate alla rosa, dal laboratorio Tsolakis, Agros, Cipro.

Sunday, December 21, 2014

Gli spazi di La Habana, piccole immagini di Cuba

Veduta di una spiaggia nei pressi di La Habana, Cuba.

Era l'aprile del 1997 quando due bambini si ritrovarono con mamma e papà su un volo diretto a La Habana, Cuba. Eravamo piccoli, mio fratello ed io, e non potevo immaginare che un viaggio a quell'età sarebbe rimasto così impresso nella mia memoria tanto da poterne scrivere diciassette anni dopo.

La verità è che quando penso a Cuba mi tornano alla mente tantissime sensazioni piccole, dei dettagli indimenticati che sono il mio ricordo dell'isola.
Non lo compresi all'epoca, ma ora, riguardando le fotografie scattate e ripensando a quei giorni, non posso fare a meno di pensare che furono 
Una bambina posa per la foto vicino ad una
bancarella di libri a La Habana, Cuba.
gli spazi di La Habana a colpirmi.

Gli spazi urbani, così ampi sulla plaza de Armas, coi viali ombreggiati di piante, le grandi arcate che proteggevano dal sole tropicale le semplici bancarelle di libri un po' stropicciati dal caldo. La Habana Vieja (L'Avana Vecchia) che, dalla sua fondazione nel 1515 ad opera conquistodor Diego Velázquez de Cuéllar, si vide adornare di edifici coloniali spagnoli, ora patrimonio dell'UNESCO. Gli spazi più vividi e gorgoglianti di gente delle viuzze colorate e sbiadite, come l'affollata Boteguita del Medio, che deve il nome alla sua posizione stranamente centrale lungo la via. Acquistata e tramutata in bar-ristorante cubano nel 1942 dallo spagnolo Angel Martinez e poi visitata da celebri personaggi come Ernest Hemingway, Salvador Allende, Pablo Neruda,... che ne consolidarono la popolarità, fu anche luogo di invenzione di uno dei cocktail simbolo dell'isola: il mojito
Veduta di un tratto del Malecon, La Habana, Cuba.

Gli spazi lunghi e ariosi del Malecon, l'avenida Antonio Maceo, inizialmente ideata nel 1901 come viale di alberi e luci, incontrò i dissapori del vento oceanico e divenne l'attuale camminamento di otto chilometri, essenziale ed aperto, magnetico per chiunque cammini al suo fianco. 

Due ragazze cubane intente a pettinarmi.
Gli spazi piani ed infiniti delle spiagge di Playa del Este, dove le mani rapide di due ragazze intrecciarono i miei capelli lunghi di bambina in decine di treccine sottilissime fermandole con dei fermaglietti metallici e io, seduta sulla sabbia bianca e tiepida di Cuba, aspettavo di vedere quel capolavoro di precisione e destrezza che sarebbero stati i miei capelli poco più tardi. Quanto amavo quelle treccine, non avrei voluto scioglierle mai! Mentre mi guardavo intorno nell'attesa, un ragazzo dai capelli scurissimi e ricci mi mostrò dei giornalini "Topolino": se li era fatti regalare da qualche turista, e mi diceva "Imparo l'italiano così", leggendo quei fumettini, memorizzando le parole e i verbi utili tra un'onomatopea e l'altra, tra una battuta e l'altra. Ricordo la ineguagliabile luce bianca del mattino che faceva sembrare la sabbia di zucchero e il mare dalle onde lente e sinuose dello stesso colore del cielo, di un'allegria sfavillante, come se nella natura si celasse la felicità vera del popolo cubano. Quel mare e quel cielo sorridenti che mai tradivano la malinconia che invece c'era e che vedevamo...

Una spiaggia di Playa del Este, Cuba.

...Negli spazi desolatamente vuoti dei negozi chiusi, delle vetrine inutili, delle farmacie sfornite. Le cose che mancavano a Cuba si vedevano: a volte facevano sorridere, come i vetri dei finestrini di un'auto in centro a l'Avana, a volte, invece, non facevano sorridere per niente.


Un'automobile a cui mancano, forse volutamente, i vetri ai finestrini, La Habana, Cuba.
Gli spazi da percorrere, per raggiungere una cremita - così chiamavano le donne cubane i campioncini di crema e profumo-, un vestitino in regalo, un salvagente colorato per il bambino. Si camminava anche con una bicicletta sgangherata appreso per poterla forse barattare con un orologio italiano, si camminava per tanti chilometri con delle arance e dei manghi in un sacchetto di plastica e i bambini per mano o in braccio per raggiungere il dottore che aveva una medicina che a Cuba non si trovava. Nella Cuba di Fidel si camminava, e tanto, per avere una possibilità. Camminava chi sapeva che la rivoluzione avrebbe salvato Cuba dal capitalismo e camminava chi, nelle gigantografie "del Che", non riusciva proprio a vederla, la pace.












Wednesday, December 10, 2014

Film dal mondo: Humko Tumse Pyaar Hai

Locandina del film "Humko Tumse Pyaar Hai".
"Le persone che si innamorano non richiedono le loro sofferenze" canta Rohit tenendo tra le braccia una ragazza dagli occhi di vetro. Quel vetro è opaco e spesso, non le permette di vedere ma non riesce a spegnere il brillio del suo sguardo vivace quando parla animata, canta flebile e danza instancabile. Quella ragazza si chiama Durga e le sue piccole mani abili creano incredibili forme di creta, tutti i personaggi del mondo che Durga non può vedere ma può immaginare e vivere come la realtà stessa. Non sa, Durga, che i suoi occhi dovranno attendere ancora tanto tempo prima di vedere per la prima volta Rohit dal cuore buono che ogni giorno si prende cura di lei senza condizioni e lotta con tutta la sua forza perché cada la coltre che oscura i suoi occhi. Non conosce ancora il suo destino, in quell'attimo di musica e di amore, non può indovinare che il suo Rohit le sarà portato via, forse per sempre...

Scena tratta dal film "Humko Tumse Pyaar Hai".
"Il tuo cuore non dovrà mai essere triste", canta Rohit, col suo amore di lacrime e risa, impensato ed immenso, e già sa che "non si può dimenticare di amare". Durga ci proverà a lungo ed invano. Proverà a rinchiudere il suo cuore in un leggero sari che si spiega nel vento delle montagne per lasciar volare via tutti i ricordi e l'illusione di una vita ad occhi aperti senza comprendere che proprio quel vento costante e infinito la riporterà indietro verso Rohit. Nonostante le aspre critiche che lo definirono "obsoleto", Il film-musical Humko Tumse Pyaar Hai diretto nel 2006 dal regista bollywoodiano di Mumbai Raj Kanwar è, per gli amanti del romanticismo indiano della Bollywood del fato, della preghiera, delle passioni intralciate e della provvidenziale giustizia, un capolavoro di poesia e sentimento. Bellissima Ameesha Patel nel ruolo della mite e fragile Durga, commovente Rohit, Arjun Rampal, con la sua dolcezza lacrimosa e la sua impassibile sofferenza, toccante Bobby Deol nel ruolo di Saj, salvatore innamorato e abbandonato, arrivato troppo tardi per Durga e al contempo dignitosamente fiero della sua debolezza e del suo sincero sacrificio.

Scena tratta dal film "Humko Tumse Pyaar Hai".
Un film che non fa mancare le atmosfere ritmatissime e movimentate della Bollywood più colorata e festaiola. Il ricevimento per il fidanzamento di Durga è un'esplosione di veli fluttuanti, tintinnii alle caviglie e dita dipinte di henna color terra. E Durga ,danzante, finalmente felice, sotto lo sguardo ignaro di Rohit e quello immenso di Saj, si nasconde, piroetta, tentenna. Solo quando quel velo cadrà indietro sui suoi capelli, l'anima spenta di Rohit tornerà alla speranza e il sogno incompiuto di Saj alla solitudine. Un film di sorprese inattese e scioccanti nella loro immediatezza e prepotenza; un film di commozione per una unione giustamente agognata e trionfante e rabbia per un desiderio disatteso e frantumato. Humko Tumse Pyaar Hai è la storia di tre amori intrecciati, ugualmente forti e leali, dove c'è forse un vinto felice a cui non basta desiderare per avere, e un vincitore triste, la cui nobiltà immensa porterà senza dubbio a "salutare un sogno" con colei che, al suo sguardo, non abbasserà gli occhi, come aveva fatto Durga.

Saturday, November 22, 2014

I fantasmi di Nicosia, Cipro del Nord

Veduta dalla Torre di Shacolas, Nicosia, Cipro. Sulle montagne, la bandiera turca.
Posto di blocco greco, poco prima di passare
la frontiere ed arrivare nella zona turca di Nicosia.
Camminando verso la frontiera, appare di sfondo
lo spettro della zona neutra di Nicosia.
Una fila di gente, un volto serio, il tonfo preciso di un timbro. Solo poche decine di metri di passaggio, una zona neutra nel mezzo che spaventa, con le sue case diroccate, ingrigite, spente, svuotate di vita, una via di fantasmi che forse, nelle notti di vento, ancora passeggiano e cercano di aprire la porta di casa. Muovemmo lì i nostri primi passi in un altro Paese che ci trovammo concretamente davanti ma che sui fogli dei potenti del mondo non esiste. Un Paese che esiste eccome, tuttavia, ma che nei ricordi di chi dovette evacuare e ricominciare tutto da capo non dovrebbe esserci. E invece c'è, la Nicosia turca, che, con la stessa irruenza di quel lontano 20 Luglio 1974, ci investì con la sua aria speziata, i suoi colori terrei e chiassosi delle città d'Oriente, le sue forme drammatiche e curve.

Fui subito pervasa da un odore diverso da quello della Nicosia greca, pochi metri più indietro: essenza di gente dai tratti più scuri e dagli occhi più scavati, da abiti lunghi e capi coperti, dalle espressioni ora sfuggenti, ora così trattenute, quasi insolenti; essenza di moschee e minareti che cantano, di tappeti polverosi e drappi profumati; di braci e kebab, di dolci lukumi, della frutta lucente del bazaar Bandabuliya. Mi trovavo sempre sulla stessa isola di qualche minuto prima, eppure fu come se quelli spiriti di vento nascosti nella zona neutra proibita ci avessero spinto, divertiti, verso un altro luogo del mondo, in un tempo sospeso a metà tra il passato e il futuro.

Numerosi i caffé, dove crocchi di giovani uomini osservavano rilassati la strada loro dinnanzi, negozi brulicanti di oggetti e acquirenti curiosi. La città era un tripudio di cartelli e scritte in una lingua che desiderai di saper leggere. Il mondo moderno avvolgeva la turca Nicosia, senza nascondere quel vento di antichità che soffiava ovunque ed imperava nelle vie più nascoste, nelle stradine più timide e confuse che ci attrassero a loro, un po' per sbaglio, un po' per volontà. 

Una strada silenziosa nella zona turca di Nicosia, Cipro del Nord.
Una città arrabattata, la Nicosia dei Turchi, confusa ed innegabilmente affascinante, costruita su quello che vi era prima, sulle esistenze di persone altre il cui destino sarebbe rimasto per sempre legato alla nuova città dentro le mura, a quell'abbandono di cose permesso dal tempo, che emergeva da ogni angolo disfatto, da qualche vicolo infangato, da alcuni stipiti cadenti; un abbandono di anime permesso dai potenti del mondo, che si sente dalle voci di chi non vuole cedere a nessuno la propria amata isola, di chi non accetta di mostrare un passaporto per camminare sulla sua terra, di chi mi corregge con "parte occupata" quando parlo di "parte turca" di Nicosia.


Un ragazzo prega trai raggi di luce della mosche di Selimiye, 
Nicosia, Cipro del Nord.

Davanti a noi apparve quasi d'improvviso l'imponente moschea di Selimiye, un tempo cattedrale di Santa Sofia, con le sue mura ceree, le sue svettanti torri e un ampio portone d'ingresso. Togliemmo le scarpe, ci coprimmo il capo col velo e ci addentrammo in un quel luogo ovattato e morbido, dove una luce soffusa entrava prepotentemente dagli ampi vetri così in alto e una penombra chiara ispirava le preghiere più sentite.







Dettaglio del cortile di Buyuk Khan, Nicosia, Cipro del Nord.
Poco lontano, si apriva in un cortile un piccolo mondo rimasto antico come allora, il Buyuk Khan, il caravanserraglio costruito da quegli stessi turchi che nel 1571 sottrassero Cipro ai Veneziani su commissione del governator-generale Muzzafer Paşa. Oggi il Buyuk Khan è un centro artistico e ricreativo, coloratissimo di oggetti in vendita e sfiziosissimo per i ristoranti del piano superiore, ma un tempo i suoi corridoi ariosi e le sue volte appuntite facevano da rifugio per i viaggiatori che dall'Anatolia arrivavano a Cipro. Mi sembrò quasi di vedere, in quel chiacchiericcio confuso del cortile interno, qualche mercante muoversi con fervore, un soldato stanco a cavallo attraversare il cortile squadrato, degli uomini entrare delicatamente nella piccola moschea Ottomana centrale, mi sembrò di poter quasi sentire lo scrosciare dell'acqua dei rituali di abluzione. E invece lì vi erano solo turisti, viaggiatori curiosi come noi, si udiva il cliccare delle macchine fotografiche, il parlottare confuso di diverse lingue, il tintinnio delle forchette e dei piatti, si vedevano i brillii della merce più preziosa, lo svolazzare delle stoffe, dei veli. Forse il Buyuk Khan, in fondo, stava dando ancora ristoro ai viaggiatori che arrivavano a Cipro, in un modo diverso.



Ingresso del quartiere di Samanbahce, Nicosia, Cipro del Nord.
Viaggiatori come noi,  camminando verso il quartiere di Samanbahce, che subito ci stregò con la sua calma apparente, interrotta ogni tanto dal miagolio di gattini nascosti dietro un vaso di fiori o sdraiati su una panchina, padroni indiscussi, alteri, con il languore orientale nei grandi occhi allungati. Samanbahce, il primo progetto di case popolari dell'isola, costruite tra il 1918 e il 1925 attorno ad una fontana esagonale che ne è da sempre il centro e che ne fu fonte di acqua e vita. Un silenzio conciliante con quel bianco dei muri, quell'azzurro e verde delle persiane chiuse. Qualche sguardo di anziana, ogni tanto, sbirciava il mondo fuori quelle pareti mute. Solo le risate chiassose di due bambini che pedalavano velocissimi negli ariosi corridoi rombavano nell'aria. Ci sorridevano, ridacchiavano gridando qualcosa che non sapemmo capire ma che li divertiva tanto, prima di sparire di nuovo, nella loro scomposta allegria. Tre bambine, sorelle, uscirono con cura da una porta blu, la riaccostarono piano, parlottando sottovoce e tenendosi per le piccole mani. Camminarono verso un'altra apertura di quell'universo misterioso dove creature nascoste vivevano nella quiete del giorno. Al loro tacito ingresso, una tenda si scostò e noi scorgemmo un focolare acceso, una donna dal capo coperto che sbucciava verdure, un ragazzo che riposava disteso su una stuoia sottile. I loro occhi si girarono di scatto, trovandoci, e poi scomparvero ancora, come spiriti inavvertibili nel mondo di Samanbahce.



Fontana esagonale al centro del quartiere di Samanbahce, Nicosia, Cipro del Nord.


Particolare della porta d'ingresso della Dervish Pasha Mansion, Nicosia.
Staccatici dalla malia ovattata di quel luogo,ci addentrammo, per le strade della Nicosìa turca, Lefkoşa, ultima città divisa nell'intera Europa, dove le case si fanno un po' cadenti, un po' stanche, ma innegabilmente belle, di una bellezza ottomana, di arabeschi e ghirigori di ornamenti sbiaditi, verniciati di una crosticina debole, che si stacca, si assottiglia; le finestrelle a golfo, i bassi ingressi ad arco delle case costruite a fine Ottocento.  Sono così le abitazioni del quartiere di Arabahmet, intitolato a Arap Ahmet Pasha, comandante ottomano e governatore di Cipro nel XVI secolo. E' così anche la Dervish Pasha Mansion, con la sua porta ottomana, costruita nei primi del Novecento come dimora dell'editore del primo quotidiano turco-cipriota, "Zaman" (Il Tempo), Tuccarbasi Haci Dervis.



Tramonto nel quartiere di Arabahmet, Nicosia, Cipro del Nord.

Zaman, il tempo... ci sorprese rapido e, senza che ce ne accorgessimo, ci ritrovammo a camminare illuminati dall'unica luce vibrante del tramonto che quella sera stava colorando il cielo di lingue infuocate di rosa e di viola. I profili delle case e delle palme si stagliarono nell'orizzonte luminosissimo, così come il profilo della vicina chiesa Armena.
Zaman... il tempo correva veloce nella lentezza di Nicosìa, scivolando sulle note allungate e flessuose del muezzin che dal suo alto minareto richiamava alla preghiera.

Presto avremmo dovuto riattraversare il confine verso la Nicosia greco-cipriota per perderci nuovamente nel profumo di souvla e caffé greco, nei suoni di una lingua così antica e fiera, acuta e ricca dell'energia di chi non smette di credere nella propria vittoria. Tornati indietro, cosa sarebbe rimasto della turca Lefkoşa? Sarebbe tornata ad essere un soffio di terra conteso e maledetto? o avrebbe continuato ad esistere nei nostri ricordi come un sogno che non svanisce al mattino? Per questo ne scrivo, per ricordarmi dell'isola trai due mondi, della Cipro divisa, per non dimenticare quel dualismo che vidi fortissimo e il fascino straniante che provai quando i fantasmi della zona neutra accompagnarono anche me nella Nicosia del Nord, guidarono anche me in quella città baluginante e malinconica come loro stessi.





Thursday, November 6, 2014

I danzatori Sasak sotto la luna di Lombok

Tramonto su una spiaggia sull'isola di Lombok, Indonesia.



video Danzatori Sasak a Lombok

Sull'isola di Lombok era una sera come tante altre, bellissima. Le onde basse e delicate del mare strisciavano silenziose sulla sabbia della riva che all'indomani mattina sarebbe stata lontana, scoprendo al sole piccoli tesori emersi: straordinarie stelle marine, sassolini levigati e conchiglie tonde o appuntite che sempre cantavano la voce del mare. 

Quella sera, però, la riva era ancora vicina e noi stavamo in ascolto della sua musica flebile che ci cullava insieme alla brezza serale. Mi strinsi un po' nel mio scialle rosato e vidi avvicinarsi a noi delle esili figure che camminavano piano, ma allegramente. Alcune di loro portavano degli strumenti leggeri, come piccoli tamburi e flauti; altre invece indossavano lunghi abiti sciancrati e procedevano a braccetto, parlottando e ridendo in una lingua sconosciuta. Erano danzatori e suonatori Sasak.

La popolazione Sasak abita prevalentemente l'isola di Lombok, nel sud est dell'Indonesia e si caratterizza per la dedizione alla religione musulmana differenziandosi così dalla maggioranza indù dei Balinesi. L'isola fu convertita all'Islam tra il XVI e XVII secolo, sotto l'influenza di Sunan Giri, uno dei Wali Sanga, ossia "santi riveriti" dall'Islam indonesiano, il quale favorì la diffusione di una religione che inglobasse le principali credenze musulmane con alcuni riti indo-buddhisti. Proprio questo mescolarsi di culture e tradizioni è ciò che rende l'isola di Lombok unica e indimenticabile. La magia della natura, l'equilibrio e i colori dell'induismo, la timidezza e i veli dell'Islam e il profumo, il delicato, inevitabile ed eterno profumo che emana tutta l'Indonesia e che ritorna tra le narici anche a distanza di tempo, che ti avvolge dal primo istante e non se ne va più.

Quando le luci si accesero graduali sul quadrato soppalco di legno lucido che sarebbe stato il loro teatro, i nostri occhi si voltarono curiosi verso quei giovani artisti. I musicisti si sedettero sulla sabbia ancora tiepida e incominciarono a battere colpi ritmati e meccanici sui loro tamburi mentre i danzatori si disposero in una fila incurvata. Erano tutti ragazzi di Lombok, tra loro c'era anche un bambino. Mai intimidito dai nostri sguardi, si  muoveva spavaldo coi più grandi senza incertezza alcuna, avvolto nel suo abitino tradizionale di guerriero. Il primo di quella curiosa fila, invece, era un ragazzo che impugnava un bastone dall'estremità bombata e dai colori sgargianti sul rosso, arancione e giallo. Si posizionò in piedi a gambe divaricate, un po' accovacciato, le spalle larghe, le forti braccia ben salde. Dietro di lui, due ragazze dell'isola tenevano appoggiata alla mano destra una scatoletta mentre con la sinistra decoravano l'aria con le loro dita in movimento rapide e controllate, le teste scattanti e pronte alla danza non appena i piatti avrebbero suonato più rapidi e vicini.

I suonatori erano ora seri e concentrati sui loro strumenti, ora un po' incuriositi dal piccolo pubblico che li circondava. C'era chi suonava un sottile flauto di bambù con note acute e vibrate, chi invece si occupava dei piatti, battendoci sopra altri due piattini più piccoli con intensità e precisione. Un altro suonatore, invece, con una bellissima orchidea bianca trai capelli, faceva suonare i piatti, un po' distratto,  con un bastoncino di legno scuro. Il giovane suonatore di tamburo pareva instancabile, lo sguardo fisso a terra, gli occhi socchiusi e le mani abili, rapide e sicure sulla pelle del suo strumento. Tutti loro, i loro strumenti e la voce discendente di una delle danzatrici formavano una piccola gamelan, tanti pezzi intonati per suonare insieme. La parola deriva dal verbo del dialetto giavanese "percuotere con un mazzuolo", probabilmente in riferimento ai continui rintocchi dei piatti o dei tamburi a cui seguono contemporanei movimenti isolati e bloccati dei danzatori.

Questi ultimi, che fino a quel momento avevano continuato a muoversi in cerchio, si fermarono per sedersi uno di fronte all'altro in due file parallele. Le danze Sasak sono, infatti, un'alternanza fluida tra movimenti energici e scattanti e altri più pacati e lenti, posizioni innaturali e spigolose contrapposte e movimenti rotatori e morbidissimi. I due danzatori camminavano sui talloni, la gambe e le braccia allargate e flesse, trattenendo tra le mani un piatto bastone di legno chiaro, forse l'arma di una storia dei guerrieri che rappresentavano. Le ragazze invece camminavano a piedi piatti, appoggiandosi sui talloni nudi solo a fine camminata.

Danzarono una danza concentrica e fluida su una musica instancabile, continua. Il pubblico li seguì attento fino alla fine, quando, ridendo, i danzatori Sasak scomparvero rapidi lungo la spiaggia, come fossero fatti di sabbia loro stessi, nel buio della sera inoltrata. Ancora oggi, quando penso all'isola di Lombok, scopro di non aver mai dimenticato quella musica e quella gestualità elegante e incantata, quei significati nascosti in cinque dita che vibrano, in un passo sicuro, in una voce che stride. 


Thursday, October 23, 2014

La mia danza è un viaggio infinito

Stasera mi sento di scrivere di un viaggio un po' diverso dal solito, che non si fa prendendo un aereo, né l'automobile. Si tratta di un viaggio che si fa coi proprio piedi, le proprie braccia, la propria schiena; che si fa con la mente, con i pensieri, con la ragione e con tutti i sentimenti che spuntano, schizzano, irrompono da ogni parte. Questo viaggio è la danza, per chi sa di cosa parlo, per chi non ne vuole sapere, per chi non ci pensa neanche a ballare - "che stupidaggine!" oppure "sono negato!"- e per chi invece non  farebbe nient'altro dalla mattina alla sera.


La danza è stato un viaggio per me, incominciato quando avevo cinque anni e la mamma mi ha portata alla mia prima lezione di danza classica. Ne sono passati di anni da quel giorno, non troppi, ma tanti sì. E questa sera, per la prima volta in così tanto tempo ho sentito una tale amarezza, una frustrazione silenziosa, una rabbia vecchia, brutta ma ancora forte, che mi ha afferrato le caviglie, mi ha intrappolato le braccia e, per la prima volta in tanti anni, mi ha fatto gettare la spugna, mi ha fatto arenare, mi ha fatto smettere, smettere di ballare. Sì, per pochi secondi mi sono fermata, immobile, come mi ero ripromessa di non fare mai. 



Ho pianto di un pianto altalenante, parlato parole attorcigliate, ascoltato opinioni in disaccordo e pensieri più ampi e più antichi, che erano lì da tempo, in agguato, pronti a svignarsela dal controllo, ad aspettare quella nota, quel conteggio, quel suono di voce, per evadere e mettere tutto in disordine, In questo caos capitato dentro al cuore in un attimo, tra occhi imbarazzati e sguardi iracondi, per la prima volta in tutta la mia vita ho pensato di fermarmi, ben più a lungo di quei pochi secondi, di fermarmi e basta. 



Una volta ho visto un bambino che voleva solo ballare. Si muoveva leggero e deciso con le sue gambette cicciotte, il suo corpicino minuscolo, la sua testolina rotonda, con quella spensieratezza che ho sempre cercato nella danza. Ballava, per sé e per la sua mamma, "per fare le persone felici", diceva. Ballava, ed era felice, quel bambino. Ballava ed era felice. 



Una volta ho visto una ragazza incredibile, a cui la vita più cattiva aveva tolto le gambe in un grave incidente. Ballava e rideva, di quella gioia che ho sempre cercato nella danza. Ballava e rideva quella ragazza senza gambe. Ballava e rideva. 



Una volta ho visto un ragazzo, la maglietta un po' larga, un cappellino sbarbatello. Una canzone iniziò e quel ragazzo si trasformò in una creatura di musica, muovendo ogni parte di sé, dentro di sé, intorno a sé. Ballava e cercava i sorrisi degli altri, quel divertimento inspiegabile tra il corpo e le note, i battiti, le pause, che ho sempre cercato nella danza. Ballava e cercava sorrisi quel ragazzo. Ballava e cercava sorrisi.



Una volta ho visto un uomo solo. Le linee del volto vissuto, gli occhi profondi e leggeri come le sue braccia che disegnavano linee nell'aria e abbracciavano qualcuno che non c'era più. Ballava e viveva la vita che sognava, oltre il dolore,  in quella consolazione che ho sempre cercato nella danza. Ballavano e vivevano quell'uomo e sua moglie. Ballavano e, solo così, vivevano.



Una volta ho visto un vecchio signore, i capelli candidi, il passo incerto, la voce tremante come il bastone su cui si appoggiava. Ballava e sentiva quella libertà travolgente che ho sempre cercato nella danza. Ballava e sentiva quel vecchio signore. Ballava e sentiva.



Poi ho ripensato a me stessa, al perché mi sono fermata stasera. E così, solo così, ho capito che è tutta una finta, che quello che si vede non è vero, perché io non ho mai smesso di ballare. Ho smesso di muovermi, di eseguire, di inghiottire un'emozione esagerata, come quando si morsica un pezzo di pane troppo grosso e per inghiottirlo bisogna bere, bere tanto. E io, di bere quest'acqua che serve, non ho mai smesso.



Io ballo per questo, per una giostra di sentimenti che a volte non so definire. Ballo per questo, con tutto questo e anche di più: un carico leggero che a volte pesa sulle spalle, sulla mia schiena un po' storta, sopra le mie gambe un po' corte, contro le mie caviglie un po' gonfie. Io questo carico lo voglio insegnare! Voglio gridare che la mia danza è un viaggio infinito che punta dritto al cuore. Voglio fare sapere che la mia danza deve essere di tutti, nessuno escluso. Deve far ridere fino alle lacrime, gioire di salti e di abbracci, scacciare il dolore con la musica.

Ci ho pensato e ho deciso: NON SMETTERò MAI DI BALLARE, con la felicità a cui anelo, con la gioia che sento, con il sorriso che porto, con la consolazione che necessito, con la vita che ho, non smetterò mai di ballare.

Alcune delle mie scarpette da punta, conservate in questi anni di danza.

Friday, October 17, 2014

Immaginare la vita a Salonicco


Veduta dal porto della Torre Bianca, Thessaloniki.

Questa storia incominciò quando una bambina venne al mondo e il suo papà volle darle un nome importante. Il giorno della sua nascita, infatti, non era stato un giorno come tanti, ma uno speciale, di vittoria, nike. Ma vittoria su cosa? Vittoria di chi? La vittoria su un popolo che abitava la Grecia antica, i Tessali; da parte di un papà che era il Re di Macedonia, Filippo II. La bambina fu chiamata Tessalonica, una principessa destinata a sposare re Cassandro di Macedonia, ancora ignara che il suo nome sarebbe diventato, non molto tempo dopo, nel 315 a.C., una città.




Torre Bianca, Thessaloniki.

Il primo giorno che la mia amica Christianna ed io passammo a Thessaloniki (Θεσσαλονίκη, Salonicco) fu un giorno di settembre e di pioggia. Camminammo lungo il mare fino alla Torre Bianca, fortificazione del XV secolo, terrificante prigione di condannati a morte e torturati, la Kanli-Kule (Torre del Sangue) dell'epoca ottomana, oggi inconfondibile simbolo eterno della città, la Beyaz-Kule (Torre Bianca) che l'ergastolano Nathan Guéledi nel 1890 dipinse interamente di bianco, guadagnandosi la sua libertà.




"Ombrelli" di Giorgos Zogolopoulos, lungomare di Thessaloniki.
Oltre la torre, il mare continuava, e anche noi camminammo a lungo - i piedi bagnati, un ombrellino rosso tra le mani - fino ad una scultura surreale ma così verosimile in quella giornata umida di gocce e nuvoloni, proprio come aveva voluto il centenario scultore Giorgos Zogolopoulos che anni prima, nel 1997, aveva costruito quei suoi "Ombrelli", sul lungomare di Thessaloniki. In un tempo "pieno di contraddizioni", come lui stesso definiva i giorni nostri, i suoi ombrellini scuri che spiccano il volo leggeri e ordinati ci stupirono, ci fecero sorridere, dandoci quella motivazione che, diceva Zogolopoulos, "nell'arte può sembrare una musica". E quel giorno la pioggia su Thessaloniki fu davvero come una musica che si mescolava alle calme onde del mare, ai rumori confusi di una città che è la seconda in grandezza in tutta la Grecia ma che ci sembrò non aver mai perso la sua semplicità di paese, aver ereditato la calma e il languore ottomano insieme alla bellezza chiara e ariosa dei Greci.


Statua di Alessandro Magno, lungomare di Thessaloniki.

Al di là degli ombrelli, scorgemmo una figura scura e imponente, che si stagliava impavida nell'orizzonte grigio-azzurro del cielo nuvoloso. Alessandro Magno, in tutta la gloria di Imperatore di Macedonia, sul suo insostituibile cavallo Bucefalo, rivissuto in una statua che troneggia sull'orizzonte del mare, come il Μέγας Ἀλέξανδρος (Mégas Aléksandros), il Grande, trionfò sul mondo antico, cambiandone per sempre le sorti. 

Statua di Aristotele,
Piazza Aristotelus, Thessaloniki.

Più indietro, si apre la piazza Aristotelus, dove troneggia immobile ed eterna la statua bronzea dell'immortale Aristotele. Disegnata nel 1918 dall'urbanista francese Ernest Michel Hébrard, la piazza pare volersi protendere verso il mare fin quasi a toccarne con reverenza i flutti. Si apre sul mondo, la piazza Aristotelus, come a mostrare che il viaggio non finisce mai, che bisogna continuare a camminare, a nuotare, a navigare. Dall'alto la piazza è una forma squadrata, essenziale, ma accogliente; animata ogni giorno e ogni sera da persone che passeggiano, la attraversano, si siedono al suo lato; punteggiata da uccelli che vi si posano alla ricerca di briciole; da chi vuole vendere qualcosa, suonare. E' l'aria che si respira sulla piazza Aristotelus ad essere unica al mondo, è la brezza che viene dal mare che indirizza lungo la sua costa, come la corrente pacata di un fiume di aria e schizzi.


Veduta dall'alto della Piazza Aristotelus, Thessaloniki.

Nei giorni che seguirono, Christianna ed io ci addentrammo nelle strade in salita e discesa della città, cercammo di scoprirne gli angolo più impensati. Il nostro secondo giorno a Thessaloniki fu una giornata di sole, un calore settembrino ma ancora ardente come quello dell'estate più piena. Salimmo sulla cima della Torre Bianca e ci perdemmo nella brezza marina che ci pettinò i capelli e ci rinfrescò la pelle accaldata. Immaginavamo la vita a Thessaloniki, in una casa con un balcone, affacciata sul lungomare, da dove lanciare lo sguardo fino alla bella e trina penisola  Chalkidikì (Χαλκιδική). Immaginavamo le mattine al sapore di  Bougàtsa (Μπουγάτσα), le sfoglie ripiene di crema spruzzate di cannella che si mangiano al mattino a Thessaloniki, i pomeriggi di caffé e di giri al Mercato Modiano, pieno di colori, parole e odori, come quello del pesce fresco, delle spezie turche, della frutta lucida e grande. Immaginavamo la vita a Thessalonikiguardando ammirate giù verso la città, da un po' più vicino al cielo.


Panorama dalla cima della Torre Bianca, Thessaloniki.

Una sera prendemmo un autobus verso la città vecchia. Arrivammo sul far del tramonto al castello, alle sue dignitose rovine che ancora dopo secoli e secoli parlano di Bisanzio. Quando le luci calarono, il nostro sguardo si smarrì nella moltitudine che ci trovammo davanti, una distesa vibrante di luci che disegnavano un percorso immaginario a ritroso nei secoli, tanto da quasi poter vedere le antiche mura scomparse, lo splendore dell'epico Alessandro e l'immortale nitrito di Bucefalo. 


Panorama della città dal castello, città vecchia, Thessaloniki.

Una città che glorifica, Thessaloniki, con le sue statue, i suoi frammenti di storia dei secoli addietro, adagiati in un sito moderno, vivido, dove il tempo segue le mode, le ragazze indossano gli abiti più eleganti di tutta la Grecia, dove i caffé si riempiono nel pomeriggio e le sere sono vivaci, fatte di chiacchiere e risate, di stare insieme tutti i giorni perché è così che si vive la vita, a Thessaloniki, come fosse sempre domenica.