Canzone afghana "Shafiq Mureed" di Khanda Ko
Ogni volta che sento la parola 'Afghanistan' penso a due cose: agli occhi di terra e di cielo degli Afghani e al sorriso infinito di Ali.
Ogni volta che sento la parola 'Afghanistan' penso a due cose: agli occhi di terra e di cielo degli Afghani e al sorriso infinito di Ali.
Non sono mai stata in Afghanistan e chissà se mi basterà tutta la vita per andarci mai. Eppure c'è sempre stata in me un'attrazione verso un Paese plurinominato nei telegiornali per le notizie più infelici, una terra ora così malinconica nel mio immaginario di straniera, e un tempo altrettanto rigogliosa. Quello che so sull'Afghanistan l'ho letto sui libri: ho letto storie, dipinto immagini nella mia mente, evocato profumi e sentimenti mai provati ma che nel leggere mi avevano accerchiato così appassionatamente da farmi pensare di averli provati davvero. E' così che questo Paese extra-ordinario è diventato per me quasi un luogo mitico nel pensiero, fatto dei ricordi dei racconti di un amico che ora non c'è più, e delle mie fantasie spropositate ma vivide e reali per chi le ha vissute davvero in quel Paese, quando ancora la guerra non c'era, i Talebani, noi in Italia, non sapevamo quasi chi fossero, e Kabul era il centro di quell'area di mondo appassionato.
Nei
secoli, numerosissime popolazioni hanno invaso le terre che oggi
costituiscono la Repubblica islamica dell'Afghanistan: Indoariani,
Persiani, Greci, Sasanidi, Arabi, Mongoli e infine Britannici e Russi
si sono succeduti nel tentativo di domare una fetta di mondo unica e
irripetibile, storicamente debole come un giunco piegato dalle tempeste
ma culturalmente irremovibile come una roccia che le disumane leggi
talebane e le indicibili prepotenze degli invasori hanno cercato invano di
trascinare via. L'avvicendarsi di queste genti, dai caratteri somatici ben diversi e così precisamente definiti, hanno dato vita ad un popolo unico per i tratti che lo caratterizzano, per le diversità stridenti dei loro volti al contempo così omogenei ed irrimediabilmente belli. Quei volti-mosaico di mondi diversi, di colori opposti e complementari: la pelle ora chiarissima ora bronzea, i profili ora marcati e grossi, ora affilati e lunghi, il sorriso grande, un po' timido all'inizio ma poi avvolgente e caldo, come lo aveva Ali, e poi quegli occhi, gli occhi che solo gli afghani hanno, incastonati come gemme nei visi profondi, lucidi e brillanti come le stelle che immagino sfavillare sopra i Buddha di Bamyian, occhi pieni di cielo e di terra mescolati insieme in un turbine fatato che, al solo guardarli, incantano per i segreti che raccontano.
Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di volare su delle note musicali che si sono sprigionate dal ristorante afghano presso cui mi trovavo. Una nota, poi l'altra, poi un battito di mani e un brulichio di uomini che sul piazzale hanno incominciato a danzare una danza a me sconosciuta e terribilmente affascinante nella sua semplicità incalzante, quasi estatica.
"Questa danza si chiama Attan", mi ha spiegato il proprietario del ristorante, i suoi occhi di terra e di cielo illuminati di curiosità verso chi vuole conoscere qualcosa che non sa, "tutti ballano questa danza in Afghanistan, ci sono dei movimenti precisi da imparare". Avrei voluto chiedere di più e lui avrebbe voluto dirmi ben altro del suo Paese lontano, forse avrebbe voluto descrivermi uno dei mille soli che illuminano la storia dell'Afghanistan o forse avrebbe solo voluto non aver finito tutti gli ingredienti nel suo piccolo ristorante per potermi far assaggiare un gusto del suo Paese. Ma quegli occhi di cielo e terra già sfuggivano via, persi in chissà quali pensieri, in quella reverenza raggiante e rapita che non abbandona mai il volto degli Afghani.
"Questa danza si chiama Attan", mi ha spiegato il proprietario del ristorante, i suoi occhi di terra e di cielo illuminati di curiosità verso chi vuole conoscere qualcosa che non sa, "tutti ballano questa danza in Afghanistan, ci sono dei movimenti precisi da imparare". Avrei voluto chiedere di più e lui avrebbe voluto dirmi ben altro del suo Paese lontano, forse avrebbe voluto descrivermi uno dei mille soli che illuminano la storia dell'Afghanistan o forse avrebbe solo voluto non aver finito tutti gli ingredienti nel suo piccolo ristorante per potermi far assaggiare un gusto del suo Paese. Ma quegli occhi di cielo e terra già sfuggivano via, persi in chissà quali pensieri, in quella reverenza raggiante e rapita che non abbandona mai il volto degli Afghani.
Guardavo quegli uomini danzare in cerchio, come incantati dalle note della musica. Si tenevano per mano, poi si svincolavano in un balzo, in un battito di mani all'unisono, ruotando nella brezza leggerissima della tarda sera i loro abiti lunghi, sollevanone i lembi talvolta, girando su se stessi, avvicinandosi ed allontanandosi dal centro del loro unisono. Dimentichi di ogni cosa intorno a loro, danzavano, e mi parve di volare anche io insieme a loro verso una terra che non ho mai visto ma che già mi pare di amare. Sulla porta, un vecchio signore afghano finiva di mangiare il suo riso e di bere un bicchiere di Sharbat-E-Bomya, dal sapore di limone e di acqua di rose. Mentre lo guardavo mi disse qualcosa che non potevo capire e mi sorrise, abbassando un poco la testa amabilmente, insieme ai suoi occhi di terra e di cielo. Ho letto da qualche parte che quando ad un Afghano si fa un complimento
su quello che si è visto nel suo Paese, egli risponderà: "Sono i tuoi
occhi ad essere belli!". La bellezza di chi vede il bello dove c'è e
dove si fa più fatica a vedere. Mi domando se sono quegli occhi che gli
afghani hanno, a metà tra il cielo e la terra, ed essere il filtro della
loro gioia nascosta, della musica della loro lingua che diventa poesia
nelle canzoni che per fortuna non sono più proibite.