Saturday, December 29, 2018

Tereza ha paura di volare




Rito de los voladores, Bosque de Chapultec, Città del Messico.
Agosto 2018, Cancún, Messico.

Tereza ha paura di volare. Me lo dice sorridendo, con le sue labbra lunghe, prima di ridere piano. Non prende un aereo da cinquant’anni esatti e non si ricorda più come funziona. Perciò, mi chiede tante cose semplici, come farebbe una bambina: ‘perché fa così freddo qui sopra?’, ‘Si vedranno le città dal finestrino?’, ‘Quanto manca?’, oppure:

-               È difficile fare il pilota?

-               Immagino di sì, deve essere un mestiere difficile quello dei piloti.

-               Que Dios los bendiga!

Parliamo solo in spagnolo, io le rispondo sempre piano – per non fare errori – e forte – per spiegare bene, come faccio a scuola con le regole di grammatica.

A Tereza dispiace che non le sia toccato il sedile vicino al finestrino perché le sarebbe piaciuto tanto guardare il cielo intorno al nostro aereo. Ma quando si sporge per sbirciare la visuale, distoglie subito lo sguardo e scoppia a ridere – gli occhi neri truccati che luccicano, le mani che corrono sulle guance.
Tereza, ve l’ho detto, ha paura di volare. Talvolta l’aereo attraversa una nuvola e dal vetro scorrono strisce di vapore come ruscelli innevati. Più sotto, tutto è grigio perché piove molto a Città del Messico in questa stagione. Tereza mi chiede allora se siano proprio nuvole quelle lingue biancastre che vede. Le dico di sì: sono nuvole e sicuramente ce ne saranno anche altre sopra di noi. È stupefatta – apre un poco la bocca, spalanca gli occhi, si sistema i capelli sulle spalle. Per qualche minuto pare pensarci, a quelle pennellate di nuvole. Poi mi guarda – sognante, le mani aperte verso l’alto – e mi dice:

-             Il cielo non ha fine.

Sì, Tereza, il cielo non ha fine ed è per questo che alcuni uomini sognano di volare.
Tereza ha paura anche di un’altra cosa e me la dice lei stessa, così: della vita ‘con la Solitudine’.

-                Adesso non sono nervosa perché sto parlando con te.

Me lo dice, pacata e lenta, poi guarda di nuovo lontano, come cercasse qualcuno.
Il marito di Tereza è morto tanti anni prima. Non so quanti anni siano quei ‘tanti’ che dice, ma lei si gira e rigira la fede sul dito, come fanno le spose.
-          
            Hai provato la cucina messicana? – mi chiede all’improvviso.

Sa che risponderò di sì: quesadillas, empanadas, fajitas, tacos, … che brava cuoca deve essere Tereza! Lo vedo da come muove le mani quando mi racconta delle sue ricette: pare davvero tagliare a fettine le verdure, sfilacciare la carne, schiacciare la pasta, avvolgere i ripieni.

Quando gli assistenti di volo passano con il carrello delle bevande in vendita, Tereza vuole offrirmi un cappuccino ma non ricorda il codice della sua carta di credito per poterlo pagare. Allora manda un messaggio a suo figlio perché non sa che i telefoni cellulari in aereo non funzionano. Quando glielo spiego, ride. Cinquant’anni fa era tutto così diverso.

Parliamo allora del suo Messico, dei luoghi che lei stessa ha visitato e di quelli che ci mancano da vedere. Mi piace sentirla parlare del mondo che conosce perché so che lì si sente sicura: parla più rapida, stringe le labbra perché i ricordi non scappino e le restino vicini. Anche le parole a volte fanno compagnia.

Tereza sogna di vedere Parigi e mi chiede se dove vivo io le sia lontano. È un po’ confusa sulla geografia, mi ci vorrebbe una cartina d’Europa per spiegarle per bene. Con le dita disegno allora linee immaginarie del mio Mediterraneo, dello stivaletto italiano e poi un punto, più a ovest, che è la capitale francese. Quando le parlo del mondo, Tereza si sporge un po’ dal finestrino, quasi a cercare quel punto. Sotto di noi si scorgono già le luci dorate di Città del Messico, i tettucci bassi delle case, i lampioni. Lungo i viali, le automobili sono punticini lucenti impazziti.

-             Non vedo l’ora che l’aereo si abbassi – mi dice, concitata, Tereza.

Ha una voce dolce e flebile, con il rombo dell’atterraggio imminente quasi non la sento. Apre la sua borsa di pelle nera sgualcita, legge qualcosa scritto a penna su una agendina, richiude la cerniera. Mi accorgo allora che la maglia azzurra che indossa è piena di fiori rossi, gialli e rosati. I suoi capelli lunghi sono ancora neri e pieni di onde. Tereza si fa un segno di croce e chiude gli occhi: la Madonna di Guadalupe ci aiuterà ad atterrare come si deve.

Quando l’aereo è ormai fermo e si possono finalmente slacciare le cinture, Tereza è impaziente: suo figlio la aspetta. Prima di affrettarsi al portello di sbarco mi dice che non prenderà mai più un aereo, ha deciso così. Né visiterà mai Parigi perché è troppo lontana e ci si arriva solo volando. Io la guardo e le vorrei dire di non avere paura e che nessun luogo è mai troppo lontano per raggiungerlo. Ma Tereza non è triste, per niente.

-           Bisogna conoscere le cose nuove finché si può perché la vita è imprevedibile,       Micol. Continua a viaggiare tu, tu che ci sei abituata. Hasta luego!

Mi saluta, Tereza, e corre impacciata all’uscita con la sua borsetta nera e gonfia di oggetti tra le mani, i suoi orecchini di rose tintinnano e ciondolano. In un attimo non la vedo più, scompare tra la folla del trafficato aeroporto di Città del Messico.

Sbrigati, Tereza, hai ragione tu: la vita non aspetta e se hai paura di volare, non importa, ché il cielo è senza fine lo stesso.


Sunday, January 22, 2017

A teatro per conoscere: "Pi amuri - Ballata per fiori innamorati"

Donne come fiori, questo è splendido. Piccoli, coriacei, infaticabili fiori, che parlano senza peccato, che danzano in piazza Navona, che sposano i principi azzurri anche se diventano tenebre.
La mafia, quello spaventevole 'fatto umano'. Di nuovo la mafia, col suo nome ridico e orrido, larvato negli anfratti delle vite più semplici, nelle esistenze fastose degli uomini miseri, in quei paesi arroventati dal sole di Sicilia, la bella.

La mafia - sbruffona, insolente crisalide di parassita  - pesante manaccia di un giardiniere beffardo che strappa arrogante quei fiori, sgualcendone i petali, incrinando gli steli. 
Ma salde sono le radici dei fiori innamorati, invisibili i bulbi dei germogli che non muoiono mai veramente. Non muoiono mai neanche le pensate parole di Rita Atria. Rita che sshhh sta zitta! sshhh non parlare! perché le voci si ammazzano qui, nel giardino di sterpi. Eppure non tacciono gli incauti pensieri della piccola Rita, nemmeno sulla cima di quell'alto palazzo, né svaporano in volo - mortale inaccettabile volo - ma riportano a Rita le ali perdute.

Ogni fiore ha un nome-destino, se mai esiste un destino, un nome taciuto, scambiato, temuto per la sua fortitudine donna e leggera. Piera Aiello, si chiama, quel fiore di campo indomabile che tutt'ora non smette di crescere nelle crepe di asfalto riarso, cercando la luce del sole anche da una gabbia di vetro per proteggere tutto il buono rimasto contro i barbari rovi che sono ancora... la mafia - sterpaglia feroce che aggroviglia le menti senz'aria, dimentica le favole insegnate ai bambini, abbassa bruscamente le teste sotto il peso di una corona ferrosa pitturata di oro.

Saveria Antiochia chiama le cose per nome. Chiama le cose per nome perché solo così non fanno paura, chiama le cose, i nomi, un nome più di ogni altro: Roberto. Ma Roberto non torna, è rimasto sulla porta di casa di Ninni - il cuore trafitto di spari, l'animo salvo. Non torna Roberto né tornano gli altri, spezzettati, divorati, disciolti dalla noncuranza che impera, dagli interessi più beceri, dalla terrorizzante paura di accorgersi che la mafia "è nelle nostre menti".

Avete ragione, fiorellini innamorati e senza colpa, i vostri petali sono divenuti pietra invincibile, le vostre salde parole sono soffi di vento incessante a Partanna, in Sicilia, ovunque ci sia bisogno di sentire che ci siete stati, che ancora ci siete.


C'è stato uno spettacolo teatrale ieri, si intitola "Pi amuri - ballata per fiori innamorati".

Ci sono tre ragazze, una compagnia - la Compagnia del Bivacco - e un teatro pieno di gente che rimane stupefatto a guardarle, a capirle, di nuovo dolorosamente memore di ogni cosa.
Grazie a Viandanti Teatranti per aver ospitato una creazione imperdibile per ogni persona di questo Paese stupendo che abbiamo. Grazie alla Compagnia del Bivacco, per quello che avete costruito.


Tuesday, May 31, 2016

I ragazzi di ebano


Particolare del dipinto 'Africa' di Helene Fallstrom 2011.
Pelli, tantissime pelli scure, anche se 'pelli' non si dice spesso, perché la pelle di solito non si conta. E invece qui sì: pelli, tantissime pelli scure, contate come numeri: ieri, un mese fa, l'anno prima, fuori dal mare, dentro ai confini. Dentro ai confini, qui dentro, si traballa, si sbuffa, ci si lagna un po', si arrabatta, ma si vive da uomini, non ancora intrappolati dalla prigione costruita con le nostre stesse mani, con le nostre stesse becere idee, di certo salvati dal mare, quel mare che riempie i vuoti tra continenti e, a volte, anche quello tra popoli. I popoli, quelli che arrivano a ondate - sì, ondate, di mare e di membra - su delle vasche, marcite troppo piccole e vecchie, sottili e cedevoli, sdrucciolanti di sale seccato e umido, asciutte di quell'odore di benzene che rimane attaccato ai vestiti nelle disperate notti, che penetra la pelle, le pelli, le tantissime pelli scure.

Occhi, tantissimi occhi scuri, scurissimi, ancor più delle pelli, pieni di parole in molte lingue che non capisco e vorrei ardentemente capire; straboccanti di ricordi roventi e luminosi come solo l'Africa sa essere. Immagino, e desidero vedere -perché nella loro Africa non ci sono stata, non ancora. Uno scoppio di colori, sì, uno scoppio, come quello del cuore di tutti i ragazzi di ebano, traditi e soli, speranzosi e soli, coraggiosi e soli, spaventati a morte e soli. Occhi, scuri come l'argilla bagnata, come le forme degli alberi contro il rosso tramonto, occhi che non lasciano entrare nessuno finché qualcuno non bussa piano sulle loro lucide pareti di ebano.

Aspettano, i ragazzi, in un silenzio rumoroso di cui provo a sentire la voce, con una compostezza riconoscente, così antica da sembrare irreale, ovattati come i passi dei piedi nudi sul pavimento, piccoli nelle loro maestose figure. E poi, d'improvviso, basta una parola, uno sbattere d'ali, un parlare mai sentito per rianimare i loro volti assopiti,  come non avessero mai atteso altro che quell'attimo, come servisse un niente per ricordar loro che sanno sorridere e diventare invincibili. 

Alcuni dei 'ragazzi di ebano' che hanno voluto raccontarmi le loro storie.
Camminano, i ragazzi di ebano, con le braccia forti e le gambe come colonne; non si sente il loro scricchiolio, non si vede il loro lacrimare volti, ma ad ogni battito di palpebra è di nuovo lì, l'Africa: Mali, Ghana, Costa d'Avorio, Guinea, Nigeria, Senegal, sono tutte lì, nel loro vestito più bello, col loro profumo di mamma e papà, col sapore del proprio piatto preferito, con il suono della voce di un amico che proprio ora, chissà dove,... 
Ma di nuovo, ecco uno sbatter di ciglia e non si è più là, ma qui, in questo nuovo Paese, un po' brutto, un po' bello, ma si è qui, grazie a Dio! -così gridano gli occhi dei ragazzi di ebano- si è qui! si è qui. Si è riuciti ad essere, anche qui, come si era là, un tempo... 






Saturday, February 27, 2016

Film dal mondo: Manolete



Desideravo da quasi un anno vedere questo film, la pelicula di cui mi aveva tanto parlato la mia amica Pilar, mentre passeggiavamo per Cordoba, la sua magnifica città andalusa. 

Scena tratta dal film 'Manolete' (2008).
Il torero Manuel Laureano Rodríguez Sánchez, conosciuto a tutti come Manolete, era nato proprio lì, nel 1917. A Cordoba, Manolete è ricordato come un mito: vi hanno costruito un mausoleo in sua memoria e tutt'ora nel famoso Bar Santos, dove si preparano le tortillas migliori di tutta Cordoba, vicino alla Mezquita, le pareti sono riempite delle fotografie originali del torero. In alcune di esse si può vedere anche il nonno di Pilar che fu sempre amico di Manolete.

La storia inizia il 28 agosto 1947, giorno in cui Manolete (nel film, Adrien Brody) si appresta a sfidare il torero emergente Luis Miguel Dominguin nella plaza de toros di Linares.   Il film ripercorre a ritroso la carriera di Manolete, raccontando anche del suo osteggiato e criticato amore per l'attrice Antonia Bronchalo Lopesino, conosciuta all'epoca come Lupe Sino (nel film Penelope Cruz). 
Scena tratta dal film 'Manolete' (2008).
Un vortice di sguardi, di uomini e tori, in un film di poche parole, tanti suoni - di bambini che corrono, di pubblico che grida, di respiri tagliati di spavento, sospiri di solitudine, di fluire di pensieri, di zoccoli e fiati, di bandiere e motori - e tanti colori - quelli dorati e rosati delle corride, quelli chiarissimi della fama e della luce del sole, quelli cupi degli incubi e delle paure, quelli rossi del sangue versato dei tori, dei petali di rosa che cadono dal cielo e dei toreri.

Sunday, January 17, 2016

Il vecchio signore che cercava Dio. Una storia di non-Misericordia.

 Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere... [...] «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci»
(Sacra Bibbia, Genesi 18)

'Uomo che cammina nella neve', Billy Childish, olio su tela, 1999.
E' la prima sera dell'anno e fa freddo, ma la chiesa è gremita. Dalle panche i fedeli ascoltano in silenzio le parole del parroco, infagottati nei loro giubbotti pesanti, avvolti nelle loro sciarpone di lana. La lettrice, davanti all'imponente leggio, richiama le parole d'incoraggiamento di Papa Francesco per il nuovo anno:  "Se la porta di Dio è aperta, anche le porte delle nostre chiese devono essere aperte, perché così tutti possono uscire e portare la misericordia di Dio"Misericordia, si dice. Misericordia. "Che parola grossa, la Misericordia", penso. Ma ecco che ad interrompere la mia riflessione subentra un borbottare di uomo confuso, come quando i vecchietti che non sentono bene non si accorgono di parlare a voce troppo alta. Quel vociare continua, si avvicina. Non mi giro. Voglio proprio sentirle le parole del Papa che escono dal microfono sull'altare, non disturbate! Poi, invece, mi vedo accanto il camminare di un uomo. E' anziano, alto, ben vestito, con uno zainetto nero tra le mani. Cammina traballante lungo la navata della chiesa, dimentico del silenzio che andrebbe mantenuto, incurante degli occhi attoniti che lo guardano. Prosegue, il vecchio signore, a passi lentissimi e incerti, le braccia spalancate in un abbraccio rassegnato verso l'invisibile, chiamando arrabbiato "Signore, Signore". I suoi occhi azzurri annacquati di lacrime guardano lontano, chissà dove. Ripete i primi comandamenti, poi si guarda intorno e parla parole confuse, sempre cerca un signore, il Signore, non smette di chiamarlo. Mio padre lo avvicina e con un braccio lo accompagna alla panca, "Si sieda qui".  Si siede, non lo chiama più ma io lo so che non ha smesso di cercare Dio
Finisce la Messa, tutti si dirigono all'uscita. Io continuo a guardare il vecchio signore, mentre la gente intorno scoppiettante di auguri si abbraccia e si bacia per il nuovo anno. Chiamo mio padre, guardo mia madre. Mi trapassa la mente una parola, come una freccia che colpisce in pieno il centro del bersaglio: Misericordia. 
"Auguri!", il vecchio signore si inginocchia, "Buon Anno!", il vecchio signore si rialza, "Tante belle cose!", il vecchio signore si stringe sul suo zainetto nero, "Avete passato bene le feste?", il vecchio signore piange e nessuno, nessuno lo vede, in quella miriade di auguri, nessuno lo sente, in quello sfarfallio di gentilezze, nessuno lo ascolta, nessuno. Davvero nessuno. Di nuovo la freccia mi colpisce la mente: Misericordia.
Mio padre va a chiedere di lui: "Qualcuno lo conosce? Da dove viene?". Si affanna, mio padre, poi anche mia madre, ma nessuno risponde davvero. Nononsochisiasìloconosciamomasipuò?èilsolitoubriacocosafacciamo?massìtranquilloadessouscirà. Una sfilata di parole, alle porte della chiesa, le porte aperte. Fuori fa freddo e il vecchio signore piange. La freccia, il bersaglio: Misericordia.
Poi arriva Marco, anche lui ha la freccia nella mente, la vedo, perché non gliene importa niente dei buon anno a Marco.  Si avvicina al vecchio e gli chiede dove sia la sua casa. "Io ho una casa, la casa del Signore", risponde. Passano tutti, tutti davvero, ma quasi nessuno si ferma ad aiutare il vecchio signore che cerca Dio. La chiesa è quasi vuota ormai: Marco, mio padre, mia madre, io e il vecchio Signore. Usciamo, fuori fa davvero freddo ed è scesa una nebbia fitta che fa perdere. Marco regala al vecchio signore una croce di legno e lo riporta a casa, perché per fortuna ha anche una piccola casa in questo mondo, oltre alla casa del Signore. Si chiudono le porte della chiesa aperte alla Misericordia, io stacco la freccia dal bersaglio, la guardo e mi chiedo: se proprio Dio stasera in questa chiesa fosse entrato per cercare dieci uomini misericordiosi come fece per salvare Sodoma e Gomorra, li avrebbe forse trovati?



«Se la porta di Dio è sempre aperta, anche le porte delle nostre chiese, delle nostre comunità, delle nostre parrocchie, diocesi, associazioni, movimenti, devono esser aperte, perché così tutti possono uscire a portare la misericordia di Dio» - See more at: http://www.toscanaoggi.it/Vita-Chiesa/Papa-Francesco-udienza-le-porte-della-Chiesa-e-della-societa-non-siano-blindate#sthash.HFAWjOK2.dpuf"<2
La Chiesa è stata incoraggiata ad aprire le sue porte, per uscire con il Signore incontro ai figli e alle figlie in cammino, a volte incerti, a volte smarriti, in questi tempi difficili. - See more at: http://www.toscanaoggi.it/Vita-Chiesa/Papa-Francesco-udienza-le-porte-della-Chiesa-e-della-societa-non-siano-blindate#sthash.HFAWjOK2.dpuf2<2
La Chiesa è stata incoraggiata ad aprire le sue porte, per uscire con il Signore incontro ai figli e alle figlie in cammino, a volte incerti, a volte smarriti, in questi tempi difficili. - See more at: http://www.toscanaoggi.it/Vita-Chiesa/Papa-Francesco-udienza-le-porte-della-Chiesa-e-della-societa-non-siano-blindate#sthash.HFAWjOK2.dpuf
La Chiesa è stata incoraggiata ad aprire le sue porte, per uscire con il Signore incontro ai figli e alle figlie in cammino, a volte incerti, a volte smarriti, in questi tempi difficili. - See more at: http://www.toscanaoggi.it/Vita-Chiesa/Papa-Francesco-udienza-le-porte-della-Chiesa-e-della-societa-non-siano-blindate#sthash.HFAWjOK2.dpuf

Friday, November 27, 2015

Cucina albanese: Byrek

Durante le infinite chiacchiere con la mia amica albanese Xhulja si parla spesso di cucina, sarà perché ci vediamo sempre a lezione di ballo prima dell'ora di pranzo! :)
Qualche giorno fa Xhulja mi ha consigliato una ricetta del suo Paese ed io, che non mi lascio sfuggire alcuna occasione per assaggiare qualche sapore nuovo, ho deciso di metterla subito in pratica o meglio... in forno!

Si tratta di una torta salata realizzata con un impasto molto sottile e croccante chiamato yufka, la pasta filo,  fritto o cotto al forno, e riempito con diversi ingredienti. 
Ho letto che il Byrek nasce nel sud dell'Albania -sarà forse qualche lettore albanese a confermarmelo!-  ma è una pietanza diffusa in tutto il Paese.

Il mio primo esperimento di cucina albanese: byrek.
Si është receta? Quale è la ricetta?
Xhulja mi ha proposto la ricetta con gli ingredienti italiani più simili a quelli della tradizione albanese. Ecco il risultato :)

Ingredienti

pasta filo
300 gr di spinaci 
150 gr di ricotta
150 gr di feta / quartirolo  
(mezza cipolla)
due uova
sale e olio d'oliva

Prendere una terrina possibilmente di forma rotonda e ricoprirla con un filo di olio. Appoggiare i diversi strati di pasta filo sul fondo fino a creare lo spessore desiderato. 
Nel frattempo, bollire gli spinaci e strizzarli una volta raffreddati. Unire le due uova alla ricotta, alla feta/quartirolo tagliati a cubetti e ad un pizzico di sale.
Tagliare la cipolla a striscioline sottili ed unirla agli spinaci e al composto.
Versare il composto nella terrina e ricoprire con altri strati di pasta filo. Ricoprire con un filo d'olio.
Infornare a 250° per circa 20-25 minuti.

Të bëftë mirë!! Buon appetito!!



Sunday, November 15, 2015

Ceci n'est pas une religion: modesto pensiero sulla sentenziosità dilagante

Sono solita associare gli avvenimenti del mondo con i miei amici che in quelle parti di mondo vivono.  Lo fate anche voi?
Quando tutta la Grecia fu chiamata a votare nel referendum che la voleva fuori o dentro l'Unione Europea, ho subito immaginato la mia amica Christianna entrare in uno di quei gabbiotti di compensato tipici delle elezioni, afferrare una matita spuntata e crociare il futuro del suo Paese.
Quando in televisione arrivò la tragica notizia del distruttivo terremoto in Nepal, mi immaginai il mio amico Parth nella sua casa di Katmandu tremante nella furia della Terra.
Quando a Mosca fecero scoppiare delle bombe  nella  mastodontica metropolitana alla fermata Lubjan'ka temetti con orrore che il mio amico Denis fosse su quel  vagone quel giorno in quell'esatto momento.
Quando, pochi giorni fa, si parlò dell'attacco kamikaze a Beirut, pensai alla dolcezza infinita del mio amico Hussein quando una sera in cui ero triste mi aveva fatta parlare fino a farmi sentire felice.
Venni  a sapere dell'attentato di Parigi mentre stavo ballando. Io ballavo e qualcuno moriva o era già morto. Feci scorrere la lista dei miei amici parigini nella mente: 2, 5, 7, ... avevo tante persone da associare, tante persone per cui preoccuparmi  questa volta. 

Non si può pensare di addolorarsi sempre per tutti. Purtroppo nel mondo di atrocità  ne accadono ogni giorno e in ogni dove. Per questo motivo, lo ripeto, non si può pensare di addolorarsi sempre per tutti.
In questi giorni quando sento, leggo, vedo così tanto cordoglio e così tanta rabbia per la morte di chi stava vivendo la propria vita come in ogni ordinario venerdì sera parigino, non posso biasimare nessuno. Non posso chiedere il perché non ci si dispiaccia drammaticamente allo stesso modo per le morti di Palestinesi, Libanesi, della gente del Mali e dell'Iraq, o dell'Afghanistan.
Non posso chiederlo perché al corso di antropologia all'università avevo imparato che ogni uomo è, in fondo, etnocentrico e perché è la propria gente quella a cui si dà, in fondo, più valore. Che brutta cosa da dire! Quasi mi fa vergognare. Eppure è proprio così, se ci fate caso. A partire dalle situazioni più quotidiane. Quante volte capita di essere all'estero e sentirsi più vicini ad un connazionale che al resto della gente intorno, così diversa, così sconosciuta?  Quante volte capita di provare, senza desiderarlo  né prevederlo, un po' più di diffidenza  verso uno straniero, magari anche dai colori diversi dai nostri, non per razzismo, no! e neanche per mancanza di - che parola iper-utilizzata! non mi piace proprio - 'tolleranza', ma per paura di sbagliare, paura di non sapere abbastanza?

Le vite dei francesi spezzate nell'agguato di ieri non valgono di più delle vite di chi passeggiava per Beirut il giorno dell'attentato, né valgono di più delle centinaia di migliaia di persone saltate per aria  a Peshawar, a Kabul, a Baghdad o sulla striscia di Gaza. Però queste morti imperdonabili, devastanti e bestiali, queste morti un po' troppo, forse, lontane, sembra che ci tocchino meno. Ci fanno piangere sì, quando ne vediamo le immagini, quando ne andiamo a leggere, quando ne compatiamo il dolore, ma se ci vengono solo elencate come numeri nella cronaca quotidiana, come trafiletti en passant nei telegiornali... è così, lo devo dire, sembra che ci tocchino meno
Parigi invece è qui, è al di là della frontiera. Chi di noi non è mai stato a Parigi o non ha mai fantasticato di andarci? Ci si arriva in treno, a Parigi. I francesi, gli spocchiosi cugini dei casinari italiani, hanno i volti come i nostri, la pelle chiara come la nostra, la loro lingua la studiamo a scuola.
Per questo non mi indigno rabbiosamente se la maggior parte dei miei conoscenti non sprecherebbe un soffio di voce per quello che di più brutale e primitivo accade nel resto del mondo per così dire 'non Occidentale' (ma poi...ad Occidente di chi?) e invece si strugge in spergiuri contro gli infami che hanno mortalmente operato nella capitale francese. Per questo non mi indigno, perché il dolore non ha alcuna bandiera, non parla nessuna lingua parlata, il dolore non si sceglie.
C'è però una cosa che mi indigna rabbiosamente, quella sì: è la non-voglia che c'è di conoscere la  verità, la facilità al conglobamento stereotipato delle colpe, la leggerezza con cui si punta il dito quando si è davanti alla violenza senza la razionalità di tacere e ascoltare, senza l'intelligenza di stare ad aspettare almeno un attimo prima di aizzarsi senza freni contro le paure ignoranti che abbiamo.

La storia pare ripetersi, ahimé, sempre uguale: cambiano le epoche, i mezzi, i luoghi, ma la storia sembra ripetersi sempre, tragicamente, uguale.
Nel XXI secolo non è facile essere musulmani. Sono loro, infatti, a dover pagare per una minoranza disumana creatasi dalla follia drogata che inneggia al terrore: il terrore della libertà, del pensiero, della giustizia, della differenza che rende completi, che rende il mondo un posto affascinante, mai noioso, che ci rende umani anziché esseri robotici. La religione - spero lo sappiate tutti  (è così ovvio che quasi mi sento banale a scriverlo) - è un pretesto. La religione è un pretesto da assassini con una voglia matta di rincorrersi con un'ascia tra le mani; la religione è un pretesto da criminali assetati di grana, di rivalsa, di quella  vendetta che il Dio, quello vero, non affida mai agli uomini; la religione è un pretesto da miserabili che cercano la gloria nell'angolo più raccapricciante del cuore; la religione è un pretesto da spostati con cui la vita probabilmente non è stata magnanima.
Non esiste religione che ordini di farsi saltare per aria nel centro città, né un Dio che sorrida al vedere degli uomini ridotti in brandelli di carne e di ossa.

Mi dispiaccio per quello che vedo, per tante delle opinioni - talvolta ingenue, talvolta irremovibili -  che sento. Mi accorgo che la scelta di isolare il mondo arabo e la gente  che ne fa parte arriva prima dello sforzo  conoscitivo nella maratona dei popoli. La demonizzazione dell'Islam corre più veloce della voglia di scoprire che i gruppi terroristici non sono un velo portato attorno al volto né un tappetino in una moschea, non sono il digiuno del Ramadan, né gli insegnamenti del Quran. I gruppi terroristici non sono una religione ma una gravissima degenerazione umana che trova come giustificazione perfetta lo 'sforzo interpretativo', quella contraddicibile اجتهاد ijtihad che fa leva sull'emarginazione sociale, sulla debolezza psichica, sulla disillusione delle promesse e sulla miseria, soprattutto quella dell'anima.